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Paolo Mottana

LA VISIONE SMERALDINA

Recensione di Massimo Marra

 

Paolo Mottana, La Visione Smeraldina, introduzione alla pedagogia immaginale Mimesis, http://www.mimesisedizioni.it/ Milano 2004, pp. 127, € 9, 00.

 

 

Un occhio maledetto, uno sguardo di Gorgone, una visione che desertifica il mondo rescindendone radici e ramificazioni immaginarie. Con la propria malferma identità epistemologica, la psicanalisi ha cercato di diagnosticare la malattia della modernità attraverso un affastellarsi di tentativi ermeneutici quasi sempre approssimativi perché ordinatori, dialettici, incapaci di contenere ed adombrare con la sufficiente e necessaria imprecisione e vaghezza le pulsioni trascendenti che popolano gli immaginari e gli immaginanti. Lo smarrimento dei legami  tra l’interiorità e il mondo è figlio, sicuramente - per riprendere un’approssimazione junghiana che ha goduto e gode di una certa popolarità - del trionfo dell’io apollineo sull’io femminile, della dissoluzione della mentalità endimionica, della vittoria della razionalità ordinatrice sulla materia caotica e poietica del sogno. E’, nella non meno problematica definizione guénoniana, un processo di “solidificazione del mondo”, un perdita dell’orizzonte invisibile della materia immateriale, immaginale. Questo appiattimento, però, non dà luogo ad approssimazioni di sanità. La malattia sociale si allarga, nelle mille forme insalubri della tristezza contemporanea, nella sofferenza interiore. Un’affezione che già Adorno ed Horkheimer avevano identificato e disvelato, con una sensibilità sconosciuta ad altri, e senza proporre goffamente strumenti ermeneutici epistemologicamente traballanti e pretese miracolistiche di cura:

 “L’illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura....

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Nel mondo illuminato la mitologia è penetrata e trapassata dal profano. La realtà completamente epurata dai demoni e dai loro ultimi rampolli concettuali, assume, nella sua naturalezza tirata a lucido, il carattere numinoso che la preistoria assegnava ai demoni ... L’estraniazione degli uomini dagli oggetti dominati non è il solo prezzo pagato per il dominio: con la reificazione dello spirito sono stati stregati anche i rapporti interni tra gli uomini, anche quelli di ognuno con se stesso. Il singolo si riduce a un nodo o crocevia di reazioni e comportamenti convenzionali che si attendono praticamente da lui. L’animismo aveva vivificato le cose; l’industrialismo reifica le anime...” (da Adorno / Horkheimer, Dialettica dell'Illuminismo,  Einaudi ed.

Il senso di perdita, l’estraniazione, per i due padri di Francoforte diviene una nostalgia del totalmente altro. La manifestazione di un’aporia irrisolta su cui la memoria può esercitare un potere risolutivo, in cui l’individuo può giocare la carta di un percorso di liberazione che comincia, anzitutto, dalla rinuncia alla luce accecante dell’illuminismo e della gabbia dialettica positivista.   

Il luogo conosciuto e poi perduto in cui si strutturava la rete arcaica di collegamento tra l’uomo ed il cosmo, il regno di cui il mito era elemento normativo e, nel contempo, chiave ermeneutica, è quello che uno studioso come Corbin, nel suo viaggio nella mistica orientale, scoprirà all’interfaccia tra il mondo della manifestazione e quello divino: l’Immaginale. Questo spazio polidimensionale, scaturigine inesausta di una poetica narrativa vitale e necessaria, è dunque il luogo di una rimozione dolorosa e cocente, il profilo cicatriziale di una mutilazione intollerabile, la cui coscienza si allarga man mano che le tracce della memoria si cancellano dietro i nostri passi.

Il terreno su cui la desertificazione agisce in maniera più potente è lo stesso su cui si svolgeva il rapporto tra le nature profonde delle cose, e tra queste ed il divino: l’immaginale è il ponte spezzato, il legame rescisso, il giardino rigoglioso tramutato in arida e desolata periferia della reificazione. Nello scenario desertico le tracce di resistenza, rappresentate dalla poesia e dall’arte, sono le guide possibili su cui esercitare una riscoperta dello sguardo sacro. Vestigia che contengono, nella modernità e singolarità dei linguaggi, la cifra arcaica di un essere memore, e che impongono l’urgenza di una pedagogia dell’immaginale, di una metodologia di riaccostamento rispettoso e reverente alla trama sottile, alla narrazione nascosta.

Si pone così, a partire dalla persistenza vitale di queste vestigia, il problema della ripresa attiva di un rapporto purificato e purificante della modernità con l’immaginale, si delinea l’inevitabilità, la necessità di un esercizio di memoria che è nel contempo l’unica guarigione possibile dalle storture patologiche che affliggono i soggetti e le collettività.  Si tratta, in generale, di un percorso di ascolto e visione altra delle opere e delle tracce di quanti un percorso nelle pieghe dell’immaginale hanno già percorso. Un’educazione alla fruizione di quanto è abitualmente nascosto alla percezione della coscienza ordinaria dell’uomo occidentale moderno.

Ci vuole un coraggio a proporre, oggi, una pedagogia dell’immaginale che si vuole inscritta nelle guide della tradizione ermetica: ciò che era chiaro sulla natura del reale, non lo è più da tempo, ciò che era naturale è pervertito in rappresentazione, ed i dubbi che ogni operazione in questo campo solleva sono più di quelli che rischiara.

Presupposto iniziale è, sicuramente, il silenzio. Misura pudica, inclinazione alla riservatezza, sobrietà della presenza, timidezza dell’ascolto, sguardo distolto. Porre un freno alla ricezione maniaca ed all’affastellarsi di flussi semiotici che falsificano l’immaginario dissolvendo la realtà e la sua forza poetica e poietica.

Poi, naturalmente, affratellarsi alla notte, al buio della cavea philosophorum, la caverna in cui, per l’alchimista, avviene la riscoperta prodigiosa dei metalli filosofali, l’entrata aperta alle viscere gestanti della mater-ia densa e sottile, solida ed immaginale, visibile e occulta. Un’amicizia col buio. Rinunciare alla luce prometeica dell’io ordinatore del mondo, alla razionalità altera dell’eroe civilizzatore, liberarsi dai lumi accecanti della ragione trionfatrice del buio del mito e del mondo delle qualità. Si tratta di protendersi all’oscurità, avanzare tentoni coi sensi tesi alle umidità, alle brezze improvvise, alle asperità, agli odori. Una coscienza tattile delle voci e dei richiami del mistero. E’ una danza complicata e bellissima di destrutturazione dell’io, un riprendere progressivo e doloroso la strada della devozione umile e silente verso il creato, che deve portare con sé uno spaesamento, una perdita di confini e di identità che è nel contempo la riscoperta di un radicamento profondissimo ed antico.

In questo buio, accogliente e terribile ad un tempo, può riprendere forma il bambino dimenticato, il puer aeternus, l’amico dell’invisibile, ansioso, dopo un lungo sonno, di tornare a giocare con le materie filosofali. Lavoro di donne e gioco di bambini, ammonisce, in riferimento alla grande opera, il Mutus Liber, un classico della letteratura alchemica. Nella purificazione della materia filosofale è un bambino regale quello che emerge, a segnalare il progresso sulla strada della reintegrazione. Dalle opere di Basilio Valentino gli alchimisti traggono le istruzioni per estrarre dalla nera stibina il regolo stellato di antimonio. Ma, per cabala fonetica, i lettori meno accorti dovranno ricordarsi che regulus non è altro che il reuccio, il bimbo coronato, che è pure una delle incarnazioni del mercurio purificato.

Questo sguardo attento e riverente di cui abbiamo parlato, questa attitudine alla venerazione, è il presupposto primo per una pedagogia dell’immaginazione ermetica. Chi volesse pronunciare un incantesimo elementare semplice e infallibile, come quello con cui gli antichi maghi imprigionavano sicuri il vento e la pioggia, non potrebbe farne a meno. Le porte della natura non si spalancherebbero all’orgoglio ebete ed ingiustificato di uno sguardo estraneo ed estraniato. I miracoli, per quanto sempre più rari, sanno sempre difendersi.

Non continueremo a discorrere ulteriormente del percorso proposto dalla pedagogia immaginale di Paolo Mottana; il lettore potrà avventurarsi senz’altro senza ulteriori preamboli e con certo profitto nella lettura di questo agile testo, così ricco di riferimenti. Quello che si legge nelle sue pagine è un invito, che, come abbiamo accennato, apre molti più dubbi di quanti non ne risolva, e che quindi addita vie feconde di crisi e svolte verso l’ignoto. Un percorso immaginale solo apparentemente innocuo, che, portato veramente innanzi, anche ad un livello solo embrionale, non può fare a meno di stimolare forze ed energie, di sommuovere equilibri. Sullo sfondo permane,  inespresso eppure adombrato, il dubbio sul destino del corpo, il supporto minerale dell’immaginazione, sulla sua necessaria pratica di ascesi e liberazione.

La pedagogia immaginale è anzitutto una proposta di rieducazione all’ascolto, di discernimento delle radici, di potatura delle fronde ipertrofiche e soffocanti.

Un percorso certamente non facile e non scevro da pericoli ed equivoci.

Ma seducente, a ben guardare.    

 

  

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