Raimondo di Sangro

Nel mondo del Principe di San Severo (1710-1761)

Davide Arecco - Ricercatore e docente di Storia della scienza e della tecnica, Università di Genova

Raimodno di SangroSu Raimondo Maria di Sangro – sulla sua figura storica, le sue molte opere e la sua leggenda – esiste una vasta letteratura secondaria, non tutta e non solo specialistica.1  Conosciamo il nobile,2  il linguista,3  il massone,4  l’alchimista. O forse crediamo di conoscerlo, specie quest’ultimo, visto il costante e reciproco compenetrarsi di mito e realtà in merito al personaggio e alle sue risultanze. Il Principe di San Severo è da sempre – si pensi anche a Benedetto Croce, alle sue Storie e leggende napoletane – un termine di confronto quasi obbligato per chi guardi al Settecento meridionale, e in particolare partenopeo, nelle sue molteplici e controverse sfaccettature. Nell’ultimo decennio sono apparse – finalmente, pare il caso di dirlo – edizioni apprezzabili, sul piano critico-filologico, delle opere più importanti pubblicate in vita dal di Sangro.5  Il problema maggiore, sino a poco tempo fa, era quello costituito da una scarsa ed affidabile documentazione, o meglio da una documentazione scarsamente controllata e sottoposta a severe verifiche, riguardo la veridicità testuale delle fonti, a loro volta assai elusive. Proprio come il ritratto del Principe, sul quale qualcosa, probabilmente, ci sfuggirà sempre. Ad ogni modo, possiamo affermare, in sede di bilancio, che il San Severo sembra tutto sommato essere stato riconsegnato alla storia. Ciò che, a mio avviso, ancora attende di venire restituito alla corretta e rigorosa indagine storiografica sono gli interessi medici del Nostro, la cui considerazione e ricostruzione è stata sovente offuscata dalla preponderante rilevanza attribuita ad altri aspetti. Come dire che il massone e l’alchimista hanno calamitato – a torto o a ragione, certo in maniera esclusiva – l’attenzione degli studiosi. Non si vuole qui – tutt’altro – sminuire il rilievo che spetta al Principe nella storia della Massoneria e in quella, strettamente congiunta ad essa nel corso dell’evo moderno, dell’alchimia. Credo semplicemente – e cercherò di dimostrarlo – che nel caso del di Sangro l’inclinazione competente e partecipe per le scienze della vita abbia finito con il costituire una sorta di terzo anello della catena conoscitiva. Una triade, quindi, dal Nostro rivissuta religiosamente: Libera Muratoria, pratiche alchemiche, studi biologici. Nel variopinto microcosmo delle logge, prima della scomunica, il di Sangro trovò (innamorandosene) quell’arte spargirica che rappresentava la ricaduta sul piano pratico dell’ermetismo rosa-crociano (fondamentale nei sistemi latomistici alto-graduali, come il suo scozzesismo).
   Ora, quanto ci dobbiamo domandare è quale fosse l’arte alchemica del Principe. Questi non era particolarmente avvinto da simboli magici e fantasie gnostiche. Semmai l’attraeva della grande opera la dimensione pratico-empirica, quantitativa e ‘razionale’, illuministica come tanti tratti del suo personaggio.6  Insomma, detto in altre parole, l’alchimia coltivata dal di Sangro era una forma, neanche tanto spregevole o degenere, di iatro-chimica post-seicentesca. Il che riporta il Nostro alla storia della biologia. In effetti, se gli storici in generale si sono ormai riappropriati del di Sangro, i cultori di storia del pensiero scientifico parevano sino a solo pochi anni fa ancora un po’ titubanti nell’accettarlo. Ricondurre il Principe di San Severo alla storia della scienza europea e a quella del Settecento nello specifico: è questa la mia ambizione. Oltretutto, le relazioni di don Raimondo con molti spiriti magni del suo tempo sono ineludibili.
    Per accettare la medicina dei novatores, il Principe dovette naturalmente abbandonare quella dei veteres. Rigettò infatti, in fretta e senza patemi, il galenismo e la storia naturale aristotelica che aveva appreso presso la scuola gesuitica romana, ove si era fermato sino all’età di vent’anni e ove aveva potuto comunque acquisire una preparazione intellettuale di gran lunga superiore alla media dell’epoca. Cultura che, accanto all’innata propensione per lo studio e la ricerca, ne fece un genio del XVIII secolo, non solo nel Regno di Napoli.7  Prima di venir ascritto tra le fila dell’Accademia della Crusca – e da cruscante scriverà la famosa Lettera apologetica, la sua confessione spirituale – il di Sangro appartenne alla Accademia dei Ravvivati (con lo pseudonimo di «Precipitoso», ad indicare credo la sua inesauribile curiosità). Nei laboratori segreti della sua dimora e nello spazio privilegiato di quella società scientifica, spia del rinnovamento accademico settecentesco, l’ancora giovane Principe poté approcciare e far sue le più recenti frontiere dell’anatomia, soprattutto della nascente cero-plastica. Sul versante dell’investigazione biologica, d’altra parte, poteva soccorrerlo pure la gran tradizione medico-filosofica del Mezzogiorno di Italia. Il naturalismo rinascimentale, la sua ripresa in senso neo-democriteo grazie a Marco Aurelio Severino e meccanicistico per mano  degli Investiganti,8  non erano passati come acqua fresca e per l’appunto nella nuova iatrochimica del di Sangro ne possiamo scorgere potenti echi riflessi. La prudenza in citazioni e rimandi è solo da attribuirsi al timore onnipresente della censura. Oltre che dalle ire di quest’ultima, il Principe si dovette guardare dai dubbi e sospetti di stregoneria nutriti nei suoi confronti dal popolino, per cui il suo nome – anche solamente il sentirlo pronunciare – avrebbe suscitato per un lungo tempo (non fa eccezione, temo, l’oggi) immagini legate alla stregoneria e alla magia nera.
    Lo scandalo nacque proprio dagli scritti iatrochimici e biofisici del Nostro, appena varcata la metà del secolo. Tutto cominciò con le polemiche suscitate dalle eruditissime Lettere sopra alcune scoperte chimiche indirizzate al signor cavaliere Giovanni Giraldi fiorentino,9  edite da Lami sulle «Novelle letterarie di Firenze» nel 1753 e ristampate poi dal di Sangro, in Napoli, attorno al 1756, credo per i tipi di Salzano e Castaldo (due editori-librai del suo giro). Al medesimo ambito si può far appartenere la celebre descrizione del così detto «lume eterno», del quale il Principe ragguagliò il pubblico colto con la sua Dissertation sur un Lampe antique, trouvée à Munich en l'année 1753. Ecrite par M.r le Prince de Saint-Sevère, pour servir de fluite a la prémière partie de ses Lettres à M.r l'Abbé Nollet, à Paris. La seconda parte di queste lettere – sempre indirizzate all’abate Nollet, nome di punta dell’Académie des Sciences di Parigi e tenace rivale di Franklin sull’elettricità – le quali contenevano «la relation d’une decouverte qu’il a faite par le moyen de quelques expériences chimiques; et l'explication phisique de ses circonstances», vennero edite «à Naples, chez Joseph Raimondi» nel 1753. Un anno davvero intensissimo per il Nostro.
I temi affrontati in tutte queste opere non rivelano un ingegno fuori dal tempo (come peraltro da più parti si è talvolta invocato), né un anti-scienziato o un negromante, che commercia con gli spiriti diabolici. Quello che viene fuori da pagine in realtà molto complesse e ancora da studiare in dettaglio è la rappresentazione di una scienza certamente mista, che vede il suo autore passare con disinvoltura persino eccessiva dalle suggestioni del biomeccanicismo cartesiano – conosciuto pure grazie al tramite dei materialisti (il La Mettrie del «fratello massone» Federico II) e philosophes, all’alba della loro stagione dorata – a quelle solo apparentemente opposte d’un mai sopito retaggio alchemico. Il Principe fu dunque, prima di ogni altra cosa, un grande sincretista. Mente eclettica per eccellenza, devoto seguace (come Newton, Leibniz, a Napoli Paolo Mattia Doria) d’una prisca sapientia madre di ogni conoscenza, il di Sangro razionalizzò a suo modo la pratica iatrica, attento ai risvolti strumentali dell’osservazione clinica e propenso a rileggere illuministicamente le regole operazionali con le quali la scienza accerta i fenomeni della vita.
    Trattando di terapeutica e soprattutto dissezioni, sino a contemplare un’articolata meccanica del corpo umano, il Principe mosse dall’alchimia tradizionale alla iatrofisica post-galileiana. Solo la sperimentazione ripetuta può – anche per lui, come per tanti «moderni» – provare la verità delle teorie. Se la metafisica scientifica del di Sangro non eliminò mai del tutto alcune scorie legate ai fantasiosi modelli del passato, la direzione da lui indicata, non senza audacia e coraggio, è nuova e volta a percorrere strade poco esplorate. Il Principe non fu, né volle essere, un mago. Non a caso, egli cercava conferme alle proprie esperienze invocando l’autorevolezza di un Nollet. Il percorso compiuto da Raimondo, a mezzo di mille difficoltà, ci può ricordare quello di Francesco Giuseppe Borri un secolo prima. Come durante la seconda metà del Seicento col milanese Borri – alchimista e medico, insistentemente cercato da Newton – nel Settecento col Principe di San Severo, si rende palese quello che Salvatore Rotta ha chiamato il «rovescio mistico della rivoluzione scientifica» di età moderna.10 
    La iatrochimica del di Sangro, oltre che nei libri succitati, rifulge anche, in architettura, nella Cappella della sua famiglia. La piccola chiesa, con i suoi influssi massonici e le sue allegorie, è un autentico capolavoro del tardo Barocco napoletano, cui parteciparono al tempo artisti e maestranze di grande notorietà. Era stata fondata da Alessandro di San Severo nel 1613, pareva sul luogo d’un antico tempio consacrato a Iside. Don Raimondo, continuando la strada intrapresa dal suo antenato Alessandro, abbellì la cappella gentilizia con statue ricche di allegorie dal multiforme significato – alchemico-chimico in certi casi, muratorio in altri – impegnandovi ingenti risorse finanziarie, sino a fare della chiesetta uno dei maggiori tesori artistici di Napoli.11  La Cappella San Severo, si sa, è nota quasi ovunque in ragione delle tre statue che la adornano, la cui esecuzione materiale rimane un misterioso enigma. Una ipotesi avanzata dai contemporanei estimatori del di Sangro è che essa sia il risultato di un procedimento messo a punto dal Principe per marmorizzare un tessuto. Quanto all’interpretazione delle allegorie, questa verte senz’altro sul messaggio illuministico e scientifico, secondo il quale attraverso la ragione ed il suo uso l’uomo può disingannarsi e liberarsi dalle false verità, allo scopo di poter così accogliere le autentiche certezze.
Si è fatto più sopra cenno all’interesse del di Sangro per gli apparati strumentali e la tecnica in generale. Va precisato che quella concernente le invenzioni del Principe, presunte o reali, resta una questione piuttosto controversa, dal momento che alcune si trovano menzionate soltanto nella Lettera apologetica, stesa nel 1750. Sorvolando sulla questione – attribuzione o auto-attribuzione? – quanto mi preme, ai fini del presente discorso, è richiamare qui l’attenzione sulle note macchine anatomiche di don Raimondo. Tra l’altro, l’invenzione di queste ultime è, forse, la sola giunta sino a noi. Si tratta di due modelli anatomici in grandezza naturale, costituiti da due scheletri umani (di uomo e di donna) su cui è incastellato il solo albero sanguigno, dai colori differenziati blu e rosso; ora, la leggenda vuole che il di Sangro avesse ottenuto tale metallizzazione del circuito sanguigno iniettando un composto di sua fabbricazione e, dato che l’unica pompa pneumatica atta a spingere il liquido sin dentro ai vasi capillari più sottili rimane il cuore, che i due malcapitati fossero ancora vivi durante l’esecuzione dell’esperimento. Naturalmente, a quell’epoca, non si disponeva ancora della siringa ipodermica. Le due macchine anatomiche, all’inizio nel laboratorio del Principe e ora situate nella cava sotterranea della Cappella, sarebbero state di fatto realizzate da un anatomista di Palermo, Giuseppe Salerno, come risulta da un contratto, oggi conservato nell’Archivio notarile di Napoli. Partendo dai due scheletri umani il Principe s’impegnava a fornire al medico siciliano il fil di ferro e la cera colorata (in base ad un metodo da lui ideato) per ricostruire l’albero circolatorio e approntare pertanto un valido modello didattico ai non sempre esperti medici del regno. In origine, la macchina femminile aveva anche un feto, trafugato però circa mezzo secolo fa. Che si tratti poi di macchine non è peraltro certo, in quanto non si è mai potuto appurare la cosa.
    Talento veramente enciclopedico, non meno del secolo in cui visse, il di Sangro si occupò di ogni ramo dello scibile umano. Costruì macchine idrauliche, capaci di trasportare l’acqua a qual si voglia altezza, si interessò di pirotecnica (per realizzare fuochi d’artificio policromatici), lavorò ad un prototipo di carta ignifuga (un misto di lana e di seta, con la proprietà di non prendere fuoco), a sistemi per dissalare e potabilizzare l’acqua di mare, alla fabbricazione di gemme artificiali (simili alle gemme vere e realizzate in marmo bianco, per esser poi colorate in base ad un procedimento del tutto nuovo) ed all’impermeabilizzazione dei tessuti (un mantello similmente trattato, che il di Sangro avrebbe donato a Carlo di Borbone, grande appassionato di caccia).12 
    Tra le inclinazioni del Principe vi fu, come detto, quella per la farmacopea. Appassionato di fisiologia – e negativamente colpito dall’ignoranza dei medici a lui coevi su questioni anatomiche, da cui l’intenzione di mettere a punto apposite macchine – il di Sangro studiò approfonditamente i remedia ricavati dai semplici. Per curare un paziente, affetto da un morbo sconosciuto, invano gli somministrò un estratto di pervinca. A seguito dell’esame autoptico, a cui il Principe partecipò e del quale ci ha lasciato traccia, è stato possibile appurare che si trattava di un tumore allo stomaco, incurabile.13 
    Ritornando alla matrice iatrochimica – centrale, a mio parere, per comprendere senza svilirla la «scienza» del Principe – vanno ricordati innanzitutto i marmi alchemici del di Sangro. Nelle sue sperimentazioni alchimistiche, il San Severo avrebbe inventato diverse sostanze chimico-mediche, tra le quali stucchi, mastici madreperlacei, usati per costruire cornicioni e capitelli, nonché un tipo di marmo sintetico che, versato allo stato fuso in apposite canaline, avrebbe formato un «cordone» bianco marmoreo, ininterrotto, che decorava il pavimento della cappella di famiglia (e ancora oggi è parzialmente visibile). Alcuni hanno fantasticato e non poco circa un suo possibile procedimento di marmorizzazione dei tessuti e la prova materiale sarebbe rintracciabile nella scultura del Cristo Velato, presente nella Cappella, ove il corpo sembra ricoperto da un velo di marmo trasparente. A onor del vero, si deve ricordare che, riguardo a quest’ultima «invenzione», non abbiamo in realtà alcune prove certe, mentre l’impressione del velo potrebbe essere dovuta soltanto all’abilità dello scultore, Giuseppe Sanmartino. Nulla di occultistico, detto altrimenti. E lo stesso si potrebbe dire, a maggior ragione, per altre due invenzioni, di cui il Principe dà notizia. La prima riguarda il così detto carbone alchemico, una mistura di sostanze originariamente animali e vegetali atte a bruciare senza produrre residui di cenere. La seconda, meglio conosciuta ma poco studiata, è testimoniata da diverse missive inviate dal San Severo ad illustri colleghi (il Nollet ed altri, per lo più francesi e tedeschi) e concerne il Lume eterno. Esso sarebbe stato un composto chimico, ottenuto a seguito della triturazione delle ossa di un teschio, costituito forse da una miscela di fosfato di calcio e di fosforo ad alta concentrazione. La miscela in questione – rinvenuta a Monaco di Baviera, verso la metà del secolo, afferma il di Sangro – avrebbe avuto la capacità di bruciare molto lentamente e di consumare una quantità realmente irrisoria di materia combustibile.
    E’ superfluo dire che i particolari tecnici di questa e d’altre invenzioni attribuite al Principe finirono inevitabilmente con l’alimentare la leggenda nera già in vita legata al suo nome. Va anche detto che il San Severo non fece peraltro nulla per screditare tali dicerie o replicare alle ingiurie le quali circolavano sul suo conto. Anzi, amò ammantare la propria esistenza di segretezza rinchiuso per giorni e giorni nel suo gabinetto delle scienze, dove – tra esperimenti e invenzioni – l’alchimia di partenza cedeva faticosamente il posto ad una nuova chimica. Le originali e inusuali attività del Principe – dalla tipografia installata nei sotterranei del suo Palazzo (foriera di sinistri e inquietanti rumori notturni) alla sua militanza nel Rito Scozzese – contribuirono di sicuro a creargli attorno una fama poco lusinghiera. Come è stato giustamente osservato, divenne presto una figura centrale nell’immaginario magico della cultura popolare napoletana. Tra le voci circolanti su di lui, quella oscura circa la metallizzazione dei corpi e l’altra che ottenesse il sangue dal nulla, come una sorta di creatio ex nihilo tutta e solo profana.14  Stregone, ateo, fautore della magia demonica e adoratore del Diavolo. Questo – da più parti, principalmente la Chiesa e le rozze masse – si disse a proposito di don Raimondo. Nulla di più falso. Il San Severo fu vittima di accuse prive di alcun fondamento, che gli procurarono comunque una damnatio memoriae immeritata. Il Principe non fu affatto quel che di lui si diceva, malignamente.15  E non fu un intellettuale alla Paolo Mattia Doria. Oppure un Vico in chiave alchimistica, Vico che poi era del Doria amicissimo.16  Per nulla «ozioso», il Nostro seppe aprirsi alle scienze – in primis quelle della vita, accademiconon sempre e non solo nuove – per arrivare a rileggerne i contenuti secondo parametri assolutamente personali. Fu un figlio del suo tempo, sul piano tanto politico-sociale quanto su quello scientifico-accademico.17  Illuminista a metà, coltivò la scienza chimico-medica (oltre che una tecnologia storicamente ancora da venire) in una maniera talora asimmetrica rispetto ai modelli epistemici del Settecento. Un Settecento al quale peraltro il Principe guardò con interesse e condivisione d’intenti, desideroso d’appartenervi. Risiede ritengo qui – e non altrove – il paradosso storico legato al personaggio e alla sua produzione, complessa e affascinante.18
Il San Severo era letteralmente ossessionato dall’immortalità e la rete sanguigna solidificata nelle macchine anatomiche con un arcano di sua invenzione lo proverebbe. Pare in effetti accertato che egli iniettò, nel 1739, una sua soluzione alchemica in due corpi già cadaveri, ricoperti da cera di api colorata (e montata su armature di ferro e di spago). L’obiettivo doveva essere quello di conservarli per l’eternità, mummificandoli. Alla prova dei fatti, il sistema fallì e le carni finirono per deteriorarsi, mentre il solo apparato cardiocircolatorio restò integro. Rimasero le sue macchine anatomiche, da lui descritte (nella Breve nota del 1766) come «due scheletri d’un Maschio, e d'una femmina, ne’ quali si osservano tutte le vene, e tutte le arterie de’ Corpi umani, fatte per injezione, che per essere tutt’intieri, e per la diligenza, con cui sono stati lavorati, si possono dire singolari in Europa». La Cappella è quindi, insieme, officina scientifica e libro di pietra. Tutta la simbologia del tempio disangriano si ispira all’antica simbologia di Cesare Ripa, lo studioso di emblemi che, nel 1603, aveva fissato i canoni simbolici della Fortuna, Fortezza, Sapienza, Fede, Astronomia e Matematica (sulla scia di Andrea Alciati).
    Un’altra scoperta il Principe descrisse in una lettera – sottoposta a perizia calligrafica e oggi reputata autentica – datata 14 novembre 1763 e indirizzata al barone Theodor Tschudy, un cadetto del reggimento di svizzeri al servizio del Re di Napoli ed un esponente di spicco della Massoneria tedesca,19  grande amico del di Sangro. Nell’epistola vi sono passaggi, scritti mediante un codice a traslitterazione di tipo rosa-crociano, quindi criptati e decifrati secoli dopo da Clara Miccinelli. Da quanto viene riportato, sembra che il Principe avesse intravisto fenomeni di radioattività naturale a metà del secolo diciottesimo. Egli si accorse infatti che il «raggio attivo» - da lui, profeticamente, così denominato – proveniente da un ignoto minerale (la «pechbenda», vale a dire le «sostanze cristalline, luminescenti al buio color di pece e d’olive, che ebbi in dono da Sua Maestà [il re] di Prussia, che io purgai da silicio, rame e varie impurità in crogiolo e in vari cammini alchemici», si legge). Il minerale si estraeva in Boemia, dalle cui miniere provenne a metà Ottocento il materiale grezzo dal quale i coniugi Curie isolarono il radio, e il Principe scoprì che aveva un effetto mortale sui viventi (da lui testato sulle farfalle) che si poteva schermare ricorrendo soltanto al piombo – da lui chiamato, in omaggio alla tradizione rinascimentale, Saturno. Se è vero che il di Sangro seppe compiere studi di elettro-magnetismo ante litteram, i quali lo condussero inconsapevole alle soglie della scoperta di uranio e polonio, potrebbe darsi che alle radiazioni emanate da questi ultimi si debba allora attribuire la sua fine. Una morte chimica, che ricorda tuttavia anche il precedente del Ciampini alla fine del Seicento. Sulla lapide tombale del Principe, costituita da una grande lastra di marmo ricoperta da una scritta latina in rilievo (opera sua) si legge che fu «uomo mirabile, nato a tutto osare, Raimondo di Sangro, Capo di tutta la sua famiglia, Principe di San Severo, Duca di Torremaggiore. […] Illustre nelle scienze matematiche e filosofiche, insuperabile nell’indagare i reconditi misteri della Natura, esimio e dotto nei Trattati, e nel comando della tattica militare terrestre e, per questo, molto apprezzato dal suo Re e da Federico di Prussia […], imitando l’innata pietà a lui pervenuta per l’ascendenza di Carlo Magno imperatore, restaurò a sue spese e con la sua saggezza questo tempio, [...] affinché nessuna età lo dimentichi».
    Sulla lapide viaria che, invece, gli è stata intitolata sulla piazza principale di Torremaggiore, in Puglia, leggiamo «chimico e matematico». Come un uomo di scienza, non per altro, desiderava dunque essere ricordato il Principe. Gian Carlo Lacerenza ha provato a descrivere il messaggio da don Raimondo trasmesso ai posteri, ossia 

    trovare la pietra, nascosta nella luce, sublimando la luce nascosta. Quanto ai modi per realizzarlo, egli con la sua consueta liberalità ha voluto benevolmente indicarceli nella sua Cappella gentilizia, per il disinganno e l’educazione degli animi volti a ottenere il completo dominio sul proprio destino, esponendone i misteri con sincerità e zelo; e anche un pizzico di pudicizia, però, velata.20 

    Quest’Archimede del Settecento, esperto in alambicchi per la distillazione, che inseguiva tra squadra e compasso le suggestioni medievali del templarismo, si mosse in bilico tra fisica e pietas religiosa, fautore di una iatrochimica illuministica eppure ancora, a suo modo, devota.21  Una delle rappresentazioni più (sobriamente) attendibili del Principe ci è venuta da Carlo Villani, che ha particolarmente insistito – senza, in seguito, trovare molto ascolto – sulle competenze scientifico-tecniche del Nostro. Villani, senza timore di esagerare, ha fatto esplicitamente del San Severo una sorta di «Edison napoletano del secolo XVIII», sottolineando, oltre all’intelligenza forte e tenace, la sincera propensione del di Sangro verso le matematiche, pure e applicate. Le aveva apprese, tra l’altro, dall’ignaziano Domenico Quartieroni, in assoluto uno dei maggiori matematici della prima metà del Settecento, stimatissimo da Newton.22  Analoga considerazione, nel tramonto del secolo, ebbe per il Principe un altro newtoniano, il savant illuminista e gran viaggiatore Lalande. La vita di don Raimondo fu appartata e pressoché solitaria, tutta dedita alle ricerche predilette. In queste, senza dubbi o riserve, egli fece propria un’impostazione squisitamente utilitaristica, molto inglese negli assunti di fondo.23  Né tralasciò le lingue, giungendo a leggere perfettamente arabo e siriaco, indispensabili per intendere in modo corretto i secreta naturae degli antichi popoli orientali. Tutto ciò non gli risparmiò la messa all’Indice della sua Lettera apologetica, dichiarata colpevole per il malcelato epicureismo di questo Adepto del Sapere.24  Agli occhi di chi invece studia il Principe, oggigiorno, la Lettera si palesa come il libro dei libri. E l’autobiografia, due secoli dopo Cardano, torna a farsi mito di sé.

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[1] G. AMALFI, La fossa del coccodrillo in Castelnuovo e ancora della leggenda del principe San Severo, Trani, Vecchi, 1896; C. GRAF VON KLINCKOWSTROEM, Raimondo di Sangro, in «Archeion», XIV, 1932, pp. 490-491; C. MICCINELLI, Il Principe di Sansevero, verità e riabilitazione, Napoli, Sen, 1982; C. MICCINELLI, Il tesoro del Principe di San Severo, Genova, Ecig, 1985; A. COLETTI, Il Principe di San Severo, Novara, De Agostini, 1988; L. SANSONE VAGNI, Raimondo Di Sangro Principe di San Severo. Le origini, la tradizione templare, la vita, il periodo storico e il cammino iniziatico nel Tempio della pietà, prefazione di G. GALASSO, Foggia, Bastogi, 1992; L. SANSONE VAGNI, Una dimora filosofale in Pozzuoli del nobile puteolano Gian Battista Vecchione, Foggia, Bastogi, 1994; L. SANSONE VAGNI, I principi di San Severo ed i Cappuccini, in «Studi e ricerche francescane», XIII, 4, 1994, pp. 247-262; G. CAPECELATRO, Un sole nel labirinto. Storia e leggenda di Raimondo de Sangro, Principe di Sansevero, Milano, Il Saggiatore, 2000; E. CATELLO, Giuseppe San Martino (1720-1793), Milano, Electa, 2004; L. LISTA, Raimondo di Sangro, il Principe dei veli di pietra, Foggia, Bastogi, 2005; L. SANSONE VAGNI, Le vere origini del complotto contro i Templari di Francia. Dalla leggenda alla storia, Genova, Ecig, 2005. 

[2] M. FIORE, I De' Sangro feudatari in Capitanata, II, Torremaggiore, Comune di Torremaggiore, 1971. 

[3] R.M. DI SANGRO, Supplica umiliata alla Santità di Benedetto XIV, pontefice ottimo e massimo, in difesa e rischiaramento sul proposito de’ Quipu peruani, a cura di L. SPRUIT, Napoli, Alos, 2006. 

[4] C. MICCINELLI, «E Dio creò l’uomo e la massoneria», Genova, Ecig, 1985, pp. 52-70, 123-124. 

[5] Si tratta di R. DI SANGRO, Il lume eterno, a cura di G.C. LACERENZA, Foggia, Bastogi, 1999; R. DI SANGRO, Lettera apologetica, a cura di L. SPRUIT, Napoli-Uppsala, Alos-Universitetstryckeriet, 2002-2003. In precedenza, di quest’ultima era disponibile soltanto una versione anastatica (Napoli, Luca Torre, 1984). 

[6] Quelli stessi che lo portarono a citare Toland nella Lettera apologetica (Napoli, Morelli, 1751) e nell’estratto preparatorio Parole maestre (Napoli, s.t., 1750). Il rinvio al grande irlandese tradiva, inoltre, un debito ancora tutto da esaminare con il deismo della Massoneria anglo-olandese primo-settecentesca. D’altra parte, al pari di molti radicali e freethinkers, il Principe fu anch’egli irregolare e controcorrente, spregiudicato e anticonformista, brunianamente anti-dogmatico. Raimondo era del resto figlio d’Antonio, duca di Torremaggiore e Grande di Spagna, libertino impenitente e intimo dell’Imperatore alla corte di Vienna, negli anni di Eugenio di Savoia e della sua cerchia aristocratica, la quale comprendeva tra gli altri Giannone e appunto Toland. Intrisi del legato deistico furono i libri, di chiaro influsso libero-muratorio, che il di Sangro, editore oltre che scrittore, fece uscire dalla sua tipografia – insieme a trattati e a traduzioni da nessun altro stampati nella nostra penisola – impiantata nei sotterranei del Palazzo dove viveva a Napoli, in piazza San Domenico Maggiore. Quei libri, suoi e di altri autori, incontrarono (e numerose volte) la censura dall’autorità cattolica oppure furono pubblicati anonimamente. Di area massonica il Principe fece stampare I viaggi di Ciro, da Les voyages de Cirus, dello scozzese Andrew Michael Ramsay (iscritto alla stessa loggia di Montesquieu), Il riccio rapito del poeta inglese Alexander Pope – pure lui massone, oltre che superbo classicista, conservatore raffinato e fervente ammiratore di Newton – con cui invitava la nobiltà napoletana a lasciarsi prendere dal fervore dei Lumi nord-europei; altra traduzione che uscì dalla stamperia del Principe fu quella del celeberrimo Conte di Gabalis, ovvero ragionamenti sulle Scienze Segrete, dell'abate francese Montfaucon de Villars, che, per il suo contenuto esoterico, portò al di Sangro una nuova accusa di miscredenza, da parte dei gesuiti. Alla cultura dell’occulto rinviava, peraltro, anche il contenuto della Lettera apologetica, dedicata al criterio di traduzione dei «quipu», vale a dire le cordicelle colorate, annodate a differenti altezze, che erano usate dalle popolazioni dell’America latina – gli Incas, stanziati nel Perù ‘riscoperto’ dal Muratori – al fine di scambiarsi messaggi segreti. Dalla tipografia del di Sangro videro la luce, infine, due opere da ricordare, un Vocabolario dell'arte militare di Terra (la cui redazione si protrasse per più di otto anni, fermandosi alla lettera «O») ed un Manuale di esercizi militari per la fanteria che ottenne il plauso del re di Prussia Federico II detto il Grande, interessatissimo alla scienza delle fortificazioni e vero punto di riferimento per i milieux della Massoneria continentale e dell’Illuminismo germanico. In proposito, va rammentato che il Principe scrisse e pubblicò, altresì, una dotta dissertazione sulla Pratica piu agevole, e più utile di esercizj militari per l'infanteria, apparsa prima a Napoli per i tipi di Giovanni di Simone (1747) e poi a Roma, presso gli eredi di Barbiellini e Pasquino (1760). Il di Sangro non volle esimersi, anche nel campo dell’editoria, dal compiere esperimenti tecnico-scientifici di una certa qualità, tanto che narrò egli stesso di essere riuscito a stampare varie pagine a più colori, in «una sola passata». Quanto al discorso sulla Massoneria e ai non sempre distesi legami che il Principe ebbe con essa, il tema è strettamente collegato a quello riguardante la Cappella gentilizia di Santa Maria della Pietà, la cui definitiva risistemazione – dopo oltre un secolo di oblio, dato che i lavori di restauro erano stati sospesi nel 1642 – tenne occupato il di Sangro (anche onerosamente) a partire dal 1744. In quello stesso anno, egli si iscrisse alla Libera Muratoria e divenne un «fratello massone». La sua loggia assunse il nome Rosa d’ordine Magno, derivante dall’anagramma dello stesso nome del Principe e dai richiami alla stirpe carolingia, di cui la sua famiglia da sempre vantava la sua discendenza. Nel breve volgere di pochi anni, di Sangro diventò «gran maestro» dell’ordine. In quel periodo – sotto la spinta di re Carlo III, sovrano ‘illuminista’ – si ebbero le grandi scoperte archeologiche a Ercolano, a Pompei e Paestum. Il Principe le vide in chiave massonica, alla stregua di una riscoperta degli antichi valori morali ed iniziatici propri dell’ideologia a cui la sua «Fratellanza» faceva riferimento. La reazione gesuitica non si fece attendere. Prima frate Guglielmo Pepe, poi il Santo Uffizio di Roma ed infine Benedetto XIV si scagliarono contro l’Istituto, alla fine sciolto. A Napoli, gli ultimi nemici del di Sangro e della sua Massoneria furono il Ministro della Real Casa Bernardo Tanucci (il quale odiava ingiustamente il Principe, per le sue simpatie filo-prussiane) ed il giovane sovrano Ferdinando IV (ignorante e bigotto). Nel 1764, l’anno della terribile carestia che decimò la popolazione del Regno, di Sangro conobbe l’arresto ed il carcere (proprio lui che, nelle vesti di colonnello del Reggimento di Capitanata, si era distinto valorosamente, in difesa della sua patria, nella battaglia di Velletri contro gli austriaci del 1744).

[7] Appassionato di araldica e geografia (disciplina che lo vide eccellere), il giovanissimo di Sangro studiò, oltre a greco, latino ed ebraico, anche retorica, filosofia naturale, logica, fisica, aritmetica e geometria. Portato per le lingue straniere, mantenne a proprie spese un sacerdote che gli impartì lezioni di tedesco. Nemmeno l’ingegneria militare e le costruzioni mancarono di stimolarlo. Nel 1730, compiuti cioè i vent’anni, Raimondo rientrò a Napoli, la sede stanziale del suo casato, avendo acquisito l’anno prima, morto il nonno paterno, il titolo di VII Principe di San Severo.

[8] Mi sia consentito, al riguardo, rimandare al mio Prima degli Investiganti napoletani. Marco Aurelio Severino tra naturalismo e cartesianesimo, in «Anthropos & Iatria», IV, 2007, pp. 86-90.

[9] M.A. MORELLI TIMPANARO, Il cavalier Giovanni Giraldi (Firenze, 1712-1753) e la sua famiglia, Firenze, Olschki, 2001. 

[10] Sul Borri si veda S. ROTTA, Francesco Giuseppe Borri, in «Dizionario biografico degli italiani», XIII, 1971, pp. 4-13. Al mondo di Borri rinvia anche la stampa voluta dal Principe del Conte di Gabalis. Tra l’altro, Montfaucon, in occasione del suo viaggio italiano, conobbe – oltre che l’astronomo Giovanni Giustino Ciampini, l’animatore della Accademia fisico-matematica, patrocinata a Roma dall’ex-regina Cristina di Svezia – proprio Borri (B. MONTFAUCON DE VILLARS, Diarium Italicum, Lutetiae, 1702, p. 97; A. VALÉRY, Correspondence inédite de Mabillon et Montfaucon avec l’Italie, III, Paris, 1947, pp. 84 e segg.). Per il di Sangro, quindi, fare uscire dalla propria tipografia sotterranea lo scritto di Montfaucon era come riattingere all’universo di conoscenze medico-alchemiche di Borri stesso.

[11] M. PONTICELLO, Napoli, la città velata, Napoli, Controcorrente, 2007. 

[12] Tra le altre invenzioni del Principe, ricordiamo un palco pieghevole per rappresentazioni teatrali (che tramite ruote, argani e funi sarebbe stato possibile sollevare e chiudere a libro; testimoniato dalla Lettera apologetica, sarebbe stato costruito, nel 1729, presso il Collegio Romano, per lo svolgimento di un carosello di cavalleria), un cannoncino da campagna (realizzato in metallo leggero, in sostituzione del bronzo, allora comunemente impiegato), un archibugio (fucile a retrocarica, fabbricato a canna unica, in grado di sparare a polvere o «a vento», come allora si chiamava l’aria compressa), una carrozza marittima (veicolo ritratto in una stampa d’epoca tuttora esistente, perfettamente simile alla carrozza terrestre, con tanto di cavalli verosimilmente in sughero o legno e – al posto delle ruote – delle pale, azionate da personale nascosto, in grado di navigare), un sistema per la stampa simultanea a più colori (oggi distinguiamo tra tricromia e quadricromia) eseguita con una sola «passata di torchio» e, da ultimo, un metodo per realizzare ‘epigrafie al negativo’ (anziché scolpire le scritte, queste sarebbero state ricoperte con una pasta, a base di paraffina, la quale le avrebbe protette dal bagno in acido, in cui l’intera lapide veniva sottoposta, ottenendo in tale maniera scritte in rilievo, come è evidenziato dalla stessa lapide del suo monumento funebre). Di Sangro sarebbe anche riuscito – i condizionali qui sono d’obbligo – a produrre una sostanza in grado di comportarsi esattamente come quella ritenuta, poi, essere il ‘sangue di San Gennaro’. Altri presunti procedimenti del Principe ineriscono la plasticizzazione a freddo di metalli, la metallizzazione e pietrificazione di materie molli, nonché nuovi processi di colorazione per marmi e vetri. Si veda, al riguardo, infra

[13]  Singolare è che certe terapie oncologiche attuali includano la somministrazione di sostanze medicamentose ricavate dalla ‘vinca rosea’, il che attesta come la cura proposta dal di Sangro secoli or sono fosse certo avveniristica, ma evidentemente non così assurda.

[14] Su questo tema si è concentrato, più di recente, P.A. ROSSI, «Non solo il vero color del sangue, ma altresì il sapore», in «Anthropos & Iatria», II, 2007, pp. 20-25. Don Raimondo, che conosceva l’opera di Boyle, aveva fatto essiccare dei minuscoli animali, di solito non più lunghi di un millimetro (dei tardigradi, probabilmente, scoperti nel 1773), i quali, se lasciati all’asciutto, si contraggono in una piccola massa informe, ma, reidratati con precauzione, riassumono la forma primitiva e l’attività consueta. In pratica, se toccati, si sbriciolano come cenere, ma, con l’acqua, rinascono (per anabiosi). Così come avrebbe fatto in chiave scientifica, non molto più tardi, Lazzaro Spallanzani, con microrganismi infusori di cui avrebbe riscontrato la morte apparente (essiccamento) e la resurrezione (riviviscenza), lavorò il Principe. Egli diceva inoltre, con orgoglio, che il suo nome gentilizio derivasse dai suoi avi merovingi e nello specifico dal Santo Graal, la coppa che conteneva il Sangue Reale o Sangue di Cristo.

[15] Tra i nemici del Principe, vanno annoverati il nunzio Apostolico a Napoli, Monsignor Gualtieri, il cardinale Silvio Valenti Gonzaga, segretario di Stato del Lambertini durante il periodo del suo pontificato (1740-1758), la Sacra congregazione de Propaganda Fide, la Sacra Consulta, i padri gesuiti Innocenzo Molinari e Francesco Pepe. Nel 1746, si sa, vi era pure stato un tentativo d’introdurre l’Inquisizione nel Regno di Napoli. Anche il grande Antonio Genovesi aveva detto, negli stessi giorni, che si deve «vegliare sulle intraprese di Roma e degli arcivescovi di Napoli, per quello che appartiene a questo formidabile e sanguinario tribunale». L’Origlia – quando il di Sangro morì, la sera del 22 marzo 1771 – appuntò nella sua Autobiografia che ciò avvenne a causa di un «malore cagionatogli dai suoi meccanici esperimenti». Con tutta probabilità, aveva inalato o ingerito qualche sostanza tossica nel corso delle lunghe notti passate nel suo laboratorio. Una fine degna di un martire della scienza. Sui legami tra il Principe ed il Genovesi, mi permetto qui di rimandare al mio Antonio Genovesi e l’immagine lockiana della scienza, in «Studi settecenteschi», XXIII, 2003, p. 152. Anche al San Severo, come a Genovesi, credo possa attribuirsi la qualifica di lockiano. 

[16] Si vedano, in merito, S. ROTTA, Paolo Mattia Doria, in Dal Muratori al Cesarotti, V, Politici ed economisti nel primo Settecento, a cura di G. RICUPERATI, Milano – Napoli, Ricciardi, 1978, pp. 837 e segg.; S. ROTTA, Paolo Mattia Doria rivisitato, in «Studi settecenteschi», III-IV, 1982-1983, pp. 45-88. Una delle poche tangenze tra il Doria e il San Severo, oltre alla fede nella philosophia perennis, è l’interesse per l’arte militare. Doria fu infatti autore, tra le altre cose, de Il capitano filosofo (Napoli, Vocola, 1739) e nelle lezioni di Medinacoeli trattò arte militare e conduttori d’eserciti (Altri manoscritti di Paolo Mattia Doria, a cura di A. SPEDICATI, Galatina, Congedo, 1986, pp. 55-83).

[17] V. FERRONE, I profeti dell’Illuminismo. Le metamorfosi della ragione nel tardo Settecento italiano, Roma – Bari, Laterza, 2000, pp. 217-283, 415-422. E sempre V. FERRONE, La società giusta ed equa. Repubblicanesimo e diritti dell’uomo in Gaetano Filangieri, Roma – Bari, Laterza, 2003, p. 83, ha fatto giustamente notare come la Libera Muratoria del Principe fosse ancora pre-biacobina e quindi improntata a un’aristocrazia del sangue.

[18] Anche il Settecento, peraltro, non smise da parte sua di ‘cercare’ il Principe. Nel 1790, di fronte al tribunale romano dell’Inquisizione, il conte Cagliostro, già membro della confraternita dei Rosa-croce, affermò che tutte le sue conoscenze alchemiche gli furono insegnate a Napoli, da «un principe molto amante della chimica». Quale sia il nome di questo principe, non ci è dato sapere, dato che i verbali del processo sono tenuti nel più stretto riserbo da parte della Camera Apostolica. Comunque sia, i giudici non vollero credere al Balsamo e lo condannarono alla prigione perpetua, nella rocca di San Leo. A quanto pare, pertanto, il Principe Raimondo Maria di Sangro potrebbe essere stato il diretto maestro di Cagliostro (P. CORTESI, Cagliostro, Roma, Newton & Compton, 2004).

[19] Nell’opuscoletto di H.T. TSCHUDY, Il catechismo ermetico-massonico della stella fiammeggiante, a cura di E. ALVI, Roma, Atanòr, 1984, troviamo anche moltissimi riferimenti pitagorici. L’arte regia, fin dai tempi di Massimo di Tiro, esponente del neo-platonismo, indicava del resto tanto l’alchimia quanto la Libera Muratoria. 

[20] G.C. LACERENZA, Introduzione a R.M. DE SANGRO, Il lume eterno, cit., p. 17. 

[21] Memorie sul San Severo si custodiscono nell’Archivio Segreto Vaticano, Napoli, CCXXXIV, 98. Molti altri documenti manoscritti, tra cui il testamento olografo, sono conservati nell’Archivio Notarile di Napoli. Tra i vari libri a stampa apparsi nelle immediate prossimità temporali della morte del di Sangro sono da menzionare, per la indubbia utilità che rivestono tutt’oggi, l’anonimo Chronicon siculum, che Rosario Gregorio, vero gigante dei Lumi di Sicilia, pubblicò a Palermo nel 1782  nella Bibliotheca scriptorum qui res in Sicilia gestas sub Aragonum imperio retulere. Di rilievo anche gli Avvenimenti memorabili accaduti in Napoli, negli anni 1746 e 1747, con tutto ciò che accadde fino all’anno 1783, Napoli, 1783, p. 4, nonché G.P. ORIGLIA, Istoria dello studio di Napoli, II, Napoli, nella stamperia di Giovanni di Simone, 1753-1754. Fondamentale anche il recentissimo repertorio, assemblato a cura di F.P. DE CEGLIA, Scienziati di Puglia (secoli V a.C. – XXI d.C.), I, Bari, Adda, 2007, ad vocem. Nel lemma che l’abate Volo consacrò invece al San Severo, un ritratto purgato e quasi statuario, nel tomo I della Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli compilata dall’accademico di Marsiglia e Lione Domenico Martuscelli, si segnalano di più le scoperte e opere idrostatiche, di grande utilità allo Stato. Nulla di cabbalistico nel Principe, pertanto. Semmai, un uomo modesto ed affabile, aperto e liberale, un lettore delle Sacre Scitture, che si applicò rigidamente sopra i teologi (Bellardino e Petau su tutti). Ma di Sangro fu pure ammiratore nascosto di Sesto Empirico e Bayle, apprezzati dietro la scusa di metterne in guardia (come Vallisneri con Malebranche). E nelle opere edite e negli abbozzi incompiuti, il Principe comprovava le teorie con l’esperienza, alla quale veniva da lui circoscritto l’orizzonte del conoscere. A ragione, il Volo ha fatto del di Sangro un fervente baconiano, al quale guardarono e con simpatia i maggiori intelletti oltremontani, sorpresi tanto dai suoi lumi quanto dal suo ingegno. Utili notizie sul Principe ci vengono dalle Vicende della cultura delle due Sicilie di Pietro Signorelli. Dispensabili, al contrario, le ricostruzioni di Campanile, D’Onofrio e Colonna di Stigliano.

[22] Nel 1713 – tramite Francesco Bianchini, in quell’anno a Londra – Newton aveva fatto di Quartieroni uno dei cinque destinatari del Commercium epistolicum, fresco di stampa. Il grande inglese, sostenuto dalla Royal Society di cui era presidente, stava infatti avviandosi a vincere la sua battaglia con Leibniz in merito alla priorità nell’invenzione del calcolo infinitesimale. Su questi argomenti, mi sono diffuso nel mio Tra filologia, erudizione e storia. Il dialogo scientifico fra Italia e Gran Bretagna negli studi bianchiniani di Salvatore Rotta, in «Giornale critico della filosofia italiana», in corso di stampa.

[23] Ripensiamo, nel caso del Principe, all’interesse assai vivace per la difesa interna dei baluardi nelle cittadelle, per la pittura eloidrica per miniature, per la tessitura dei drappi. Oppure ancora al cannone che fece costruire, in grado di funzionare egregiamente non solo con una minore dose di polvere pirica, ma dotato anche di un peso specifico così minimo da consentirne un agevole trasporto per i soldati. Indimenticabile e stupefacente pure il Tempio della felicità, una grandiosa macchina pirotecnica fatta fabbricare nel 1740 – ricca di cupole, di scalinate e di elefanti – incendiata la quale comparivano simulacri di giardini con fontane zampillanti, svariati fiori ed uccelli d’ogni tipo. Il tempio piacque tantissimo al cavalier Michetti, ingegnere civile del principe di Moscovia e zar di tutte le Russie Pietro III.

[24] C. VILLANI, Scrittori ed artisti pugliesi, Napoli, Morano, 1920, pp. 201-203. Nel corso del Settecento, d’altra parte, la rinomata scuola alchemica napoletana – cifra di un ‘altro’ Illuminismo, piuttosto che di un anti-Illuminismo – coinvolse, assieme al Principe, anche altri studiosi dal provato valore scientifico. Le loro ricerche riguardarono, sopra ogni altra cosa, la trasmutazione dei metalli e l’esame delle loro proprietà fisiche. Il di Sangro, visto in quest’ottica, è solo il rappresentante più illustre di questi scienziati napoletani, ostinati nel ricercare ed eleganti nello scrivere, Certo, il San Severo seppe conseguire risultati superiori, specie nella balistica e nella resa plastica «a freddo» del ferro. Ma è poco convincente l’immagine del Principe che celerebbe, sotto la propria veste di filosofo chimico, la sua vera identità di iniziato, limitandosi a vestire in termini scientifico-illuministici un più profondo portato sapienziale. Può risultare infatti vero pure il contrario, come tornano a rammentarci le grandi conoscenze del Nostro nel campo della «notomia» e segnatamente il suo studio del sistema venoso. E’ più probabile che il di Sangro riflettesse più o meno originalmente paradigmi e stilemi dell’epoca sua. Tipicamente settecentesco – anzi, caratteristico dell’ancien régime – è l’orgoglio da lui mostrato nel vantare la sua discendenza nobiliare da quei duchi di Borgogna i quali avevo fuso le diverse stirpi carolingia, longobarda e normanna. Appassionato di iconografia, come si evince dal Tempio della pietà, il San Severo ebbe care le arti e protesse tra gli altri scultori e pittori come Queirolo, Corradini, Celebrano, Persico, Carlo Amalfi e Francesco Maria Russo. Si devono infatti a loro i bellissimi apparati scultorii che ornano i sepolcri degli antenati del Principe nella Cappella, perfetta espressione di una simbologia massonico-templare che assomma elementi di stampo rosa-crociano con altri dalla sicura provenienza illuministica. E, in effetti, resta davvero difficile negare la pregnanza dell’aspetto visivo. L’impronta, nel visitatore accorto e non solo, rimane indelebile. Meno conosciuti sono i rimandi all’alessandrinismo e al culto pre-cristiano di Neapolis. Una tradizione egiziana che può inoltre legittimare contatti col cagliostrismo del secondo Settecento. Secondo tale tradizione, l’ex-tempio isiaco sul quale era sorta la Cappella era un ‘luogo di forze’ telluriche, in cui l’apprendista ai Misteri doveva meditare per poter trascendere l’elemento ctonio e di conseguenza rinascere in quello uranico: una sorta di palingenesi celeste. A questo cammino iniziatico le realizzazioni scientifiche del San Severo – costruzioni geometriche e architettoniche, macchine meravigliose per la esplicitazione di armonie numeriche – facevano da sfondo e da cornice. Una sorta di terreno preparatorio, sacralizzato dalla scienza.

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