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GIACOMO CASANOVA E LA MAGIA:
occultisti e occultismo ne
“La storia della mia vita”

Walter Catalano - saggista

Articolo pubblicato per gentile concessione dell'autore, che ne detiene i diritti. Riproduzione vietata con qualsiasi mezzo.

 



Il Casanova ritratto in età matura.

 

“Sono una particella dell’universo e come tale parlo all’aria, e immagino di rendere conto della mia attività come un maggiordomo rende conto al suo padrone prima di andarsene”

(Giacomo Casanova)

 

Giacomo Casanova, nato a Venezia nel 1725 e morto a Dux in Boemia nel 1798, è uno fra i più famosi avventurieri di quell’avventuroso secolo XVIII° che produsse, nel bene e nel male, tutti i frutti della modernità. In sintonia con l’atteggiamento illuministico del suo tempo, questo eclettico personaggio – i cui principali meriti, secondo la sua stessa ammissione, furono di esser riuscito a fuggire dal carcere veneziano dei Piombi e di aver ferito in duello il conte Branicki, generalissimo del re di Polonia – passa più che altro per un libertino ed un epicureo, ultima incarnazione dell’archetipo di Don Giovanni (non è dunque casuale la sua ormai quasi accertata collaborazione con Lorenzo Da ponte per la stesura, nel 1787, del libretto dell’omonima opera di Mozart).

In realtà questa categorizzazione, seppure non certo fuori luogo, manca di rendere pienamente conto della complessità e della ricchezza di sfaccettature, spesso contraddittorie, proprie alla multiforme personalità casanoviana: fra l’altro egli fu fine letterato (anticipatore anche della moderna fantascienza con il suo romanzo Icosameron del 1788), arguto polemista, ecclesiastico e violinista mancato, matematico, giocatore d’azzardo disinvolto, agente segreto e bibliotecario, inquisito e inquisitore.

Del resto lo stesso Cavaliere di Seingalt – secondo il fantasioso titolo che si era attribuito - così si confessava: “Coltivare i piaceri dei sensi è stata per tutta la mia vita la mia principale occupazione, e non ne ho mai avuta altra più importante. Sentendomi nato per l’altro sesso, l’ho sempre amato e mi sono fatto amare per quanto possibile. Ho molto amato anche la buona tavola e insieme tutte le cose che eccitano la curiosità” (1). Insieme all’eccitazione dei sensi è quindi la curiosità intellettuale la molla che spinse questo inquieto “sangue patrizio dei Grimani inseminato in una povera fanciulla di Burano e legittimato da un guitto senza fortuna” (2) a darsi così tanto da fare in giro per l’Europa. E nel novero delle “cose che eccitano la curiosità” - secondo un cliché che fa del ‘700 non solo il secolo di Voltaire e di Diderot ma anche quello di Martinez de Pasqually, de Saint-Martin, Cagliostro, Mesmer, ecc. – non poteva mancare nemmeno la pratica delle scienze occulte e l’interesse per le massonerie e le confraternite esoteriche: sebbene preferisse non sottolineare troppo la questione infatti, ed avesse anzi duramente attaccato nel suo libello Soliloque d’un penseur, del 1786, Cagliostro e Saint-Germain considerati dei volgari ciarlatani, Casanova praticò abbondantemente varie forme di magia “teurgica” e mantica “cabalistica”. Ce ne dà testimonianza egli stesso nella sua opera maggiore, quella Histoire de ma vie che iniziò a scrivere nel 1789 al castello di Dux in Boemia, dove sarebbe morto, e che narra e “mitologizza” le numerose avventure della sua vita dalla nascita fino al 1774, anno dopo il quale “non aveva…più nulla di piacevole da raccontare, perché la fortuna lo aveva abbandonato…” (3). In questo monumentale e divertentissimo florilegio di fughe e viaggi, amori e duelli, truffe ed evasioni; specchio di un’epoca e di un’anima, assolutamente veritiero nella sua deformazione prospettica tesa ad esaltare e giustificare – ma senza vanagloria né ipocrisia – il protagonista, trovano spazio le descrizioni delle sue numerose pratiche magiche e occultistiche  (4) – spesso apertamente sminuite e deprezzate dall’autore come un semplice gioco o un espediente fraudolento per gabbare gli stolti - e, fra i tanti incontri, si descrivono anche quelli da lui avuti con i due maggiori protagonisti del ‘700 magico: Saint-Germain e Cagliostro, futuri oggetti dei suoi strali polemici tardivamente volterriani.

Il primo dei due - il presunto Conte Tzarogy di Saint-Germain, principe Racoczy, generale del Monferrato (1696-1784), che Casanova chiamerà nel suo tardo Soliloquio di un pensatore “il nero Saint-Germain” e che per lui non era “altri che il violinista italiano Catalani” - sarà uno dei commensali di un pranzo presso la marchesa d’Urfé, appassionata di occultismo e protettrice di Casanova, a Parigi nel 1759. “Costui anziché mangiare parlò dal principio alla fine del pranzo – commenta Casanova - e io lo ascoltai con estrema attenzione perché era un parlatore straordinario. Si spacciava per fantastico in tutto, voleva stupire e ci riusciva. Aveva un tono autoritario, che però non riusciva sgradevole, perché era colto, parlava correntemente tutte le lingue ed era un valente musicista e un grande alchimista. Piacevole d’aspetto, sapeva conquistare le donne, dando loro cosmetici per abbellire la carnagione e lusingandole con la promessa non di farle ringiovanire, cosa impossibile, ma di conservarle com’erano mediante un’acqua di cui faceva loro dono nonostante gli costasse molto



Un altro ritratto di Casanova

 

Quest’uomo bizzarro, che sembrava nato per essere il più sfrontato dei bugiardi, sosteneva con una grande faccia di bronzo di avere trecento anni, di possedere la medicina universale, di essere in grado di fare tutto quel che voleva con la natura, di essere capace di fondere i diamanti e di poterne ricavare uno enorme e di acqua purissima da una dozzina di normali senza alcuna diminuzione di peso…Nonostante le sue fanfaronate, le sue sparate e le sue evidenti bugie, non riuscii a trovarlo sfacciato, ma nemmeno rispettabile. Lo trovai sbalorditivo, mio malgrado, perché a sbalordirmi riuscì”. Casanova si riferisce qui ad un secondo incontro avvenuto qualche anno più tardi, intorno al 1765 a Tournai, al di qua della Manica, dove l’avventuriero italiano era riparato in fuga da Londra per oscure vicende pecuniarie. Scorti alcuni palafrenieri intenti a curare dei cavalli, Casanova domanda notizie del padrone: “Il conte di Saint-Germain, l’adepto – gli viene risposto – E’ qui da un mese ma non esce mai. Tutti vorrebbero fargli visita ma non riceve nessuno”. Il veneziano incuriosito gli chiede subito udienza con un biglietto. Il conte risponde dicendo che pur essendo in isolamento completo è disposto a fare un’eccezione per la sua vecchia conoscenza: “Venga all’ora che preferisce…Non le offro di dividere il mio pranzo perché quello che mangio non può andar bene a nessuno e a lei meno che a ogni altro, se conserva il suo vecchio appetito” – aggiunge. Casanova va all’appuntamento e il conte lo riceve “con la barba lunga un pollice”, circondato da ampolle piene di liquidi, alcune delle quali “in decantazione nella sabbia a calore naturale”. Saint-Germain dice di stare lavorando intorno ai colori e di voler aprire una fabbrica di cappelli nella provincia. Prescrive a Casanova una cura a base di pillole per “purgare le ghiandole” e guarire dalla sua malattia (numerose sono le patologie di origine venerea che affliggono il Cavaliere di Seingalt nel corso delle avventure rievocate nelle sue memorie) ma questi preferisce prudenzialmente non accettare. Poi gli mostra il “suo archeo, che lui chiamava Atoétér” – l’agente universale degli alchimisti, il principio universale della vita secondo Paracelso – “un liquido bianco, contenuto in una piccola fiala simile a parecchie altre che si trovavano lì vicino, tutte turate con la cera”. Era lo spirito universale della natura: “lo provava il fatto che, se si faceva un forellino con uno spillo nella cera, lo spirito sarebbe uscito subito dalla fiala”. Casanova prega il conte di dargli una dimostrazione e Saint-Germain lo invita a provare lui stesso. Il veneziano prende una fiala e buca la cera con uno spillo: il recipiente si vuota in un attimo. “Eccezionale! Ma a che cosa serve?” – domanda. “Questo, purtroppo, non posso dirglielo”. Prima di salutare l’ospite, il conte – “da quell’esibizionista che era”, commenta acido Casanova – gli chiede una moneta, vi pone sopra un granello nero, la mette su un carbone ardente soffiandovi con una cannuccia. In meno di dieci minuti la moneta diventa incandescente e il conte la lascia raffreddare e invita Casanova a riprendersela: è diventata d’oro. L’italiano dubita - “sicuro che avesse fatto sparire la mia per sostituirla con quella d’oro” - e nota che, non sapendo prima quale sarebbe stato lo scopo finale dell’esperimento un osservatore non avrebbe potuto guardare abbastanza attentamente da accertarsi se la moneta d’argento non fosse stata sostituita prima di finire sul carbone ardente. Il conte “con una risposta che gli era tipica”, ribatte che “coloro che potevano dubitare della sua scienza non erano degni di rivolgergli la parola” e lo congeda. “Quella fu l’ultima volta che vidi quel celebre e abile impostore….La sua moneta da dodici soldi, per altro, - ammette lo scettico – era d’oro puro” (5)

 



Il Conte di Saint Germain

 

Per quanto riguarda il conte Alessandro Cagliostro, o meglio Giuseppe Balsamo (1743-1795), Casanova lo ricorda - oltre che per essere “un bell’uomo ma…con una faccia patibolare” e per avergli raccomandato a Venezia nel 1778, dove “si faceva chiamare Pellegrini”, di “stare attento a non mettere piede a Roma, e se mi avesse dato retta, non sarebbe morto nella fortezza di San Leo” – rievocando il suo primo incontro con lui, ancora all’inizio della sua carriera con la moglie Serafina, in realtà Lorenza Feliciani, che lo avrebbe poi denunciato al Santo Uffizio nel 1789.

La vicenda si svolge in una locanda di Aix-en-Provence nel 1769, dove Casanova, ormai quarantaquattrenne, si sta riprendendo dai postumi di una grave pleurite contratta per aver preso freddo durante un incontro galante particolarmente faticoso - “purtroppo non avevo più l’età per prodezze di quel genere”, ammette il vecchio seduttore – durante il pranzo i convitati parlano di due misteriosi pellegrini italiani, un uomo ed un’incantevole giovinetta, appena giunti in albergo di ritorno a piedi da Santiago di Compostela. Casanova, incuriosito, li giudica a priori “devoti fanatici o grandi imbroglioni” e decide di far visita ai due compatrioti. La pellegrina “attirava l’attenzione per la sua giovanissima età, per la sua bellezza che era accentuata da un velo di mestizia e anche per il crocefisso di metallo giallo, lungo sei pollici, che reggeva in mano”; il pellegrino invece “piccolo di statura e ben fatto…dimostrava cinque o sei anni più della moglie e…appariva un tipo piuttosto baldanzoso, sfrontato e impertinente: insomma un vero e proprio delinquente, tutto il contrario della moglie che ostentava nobiltà, modestia, ingenuità e pudore”. I due parlano a stento francese e Casanova si rivolge loro in italiano: la donna dice di essere romana – “in verità non c’era bisogno che lo precisasse, giacchè il suo accento grazioso lo dimostrava chiaramente” – mentre l’uomo, che dice di essere napoletano, parla invece con accento siciliano: “il suo passaporto, rilasciato a Roma, dichiarava che il suo nome era Balsamo, mentre la ragazza si chiamava Serafina Feliciani”. La coppia sostiene di essere sulla via di ritorno a Roma dopo un pellegrinaggio, interamente a piedi e vivendo di elemosine dopo aver distribuito ai poveri tutto il loro denaro, fino a Santiago e a Nostra Signora del Pilar: dovrebbero poi fare sosta a Torino per visitare la Sindone.

 

 


Un ritratto di Cagliostro.

 

Casanova prende congedo dai due contento di aver visto “una così graziosa pellegrina” – “aveva un unico difetto: le palpebre un po’ cispose che nuocevano alla dolcezza dei suoi begli occhi azzurri” – ma piuttosto perplesso “circa la sua devozione”. L’indomani però viene invitato a pranzo da Balsamo che gli confida di essere un disegnatore a penna, specializzato in chiaroscuro, e gli mostra alcuni suoi lavori - dei ventagli “davvero belli” e la copia di un Rembrandt – lamentandosi però di fare la fame col suo lavoro non ostante la sua bravura. “Mi parve uno di quei geni fannulloni che preferiscono la vita vagabonda alla vita laboriosa” – commenta

Casanova che si è offerto di comprargli un ventaglio. Balsamo lo prega di accettarlo in regalo ma di fare in cambio una questua a tavola a favore suo e della moglie. Il veneziano raccoglie cinquanta scudi che consegna alla giovane donna: osservandola aggiunge che “non aveva assolutamente un aspetto libertino e anzi si comportava da persona riservata e per bene” e nota che non sa scrivere: “ne dedussi…che doveva essere di origine contadina”. Il giorno seguente la ragazza torna nella camera del seduttore chiedendogli delle lettere di presentazione per Avignone: Casanova gliene consegna due e a sera la fanciulla e Balsamo tornano nella sua camera mostrandogli la copia identica e indistinguibile dall’originale di una delle lettere da lui poco prima vergate, eseguita dal marito. “Non nascosi all’uomo tutta la mia ammirazione e gli dissi che poteva indubbiamente trarre grandi vantaggi dalla sua abilità, ma che, se non fosse stato ben attento, essa avrebbe anche potuto costargli la vita”. Il giorno successivo la coppia parte. Casanova dice di averla incontrata di nuovo dieci anni dopo a Venezia dove Balsamo si faceva chiamare “conte Pellegrini”: purtroppo il memorialista non giunse mai a scrivere quella parte dei suoi ricordi e questo fatto ci priva di una testimonianza fondamentale e diretta della trasformazione cruciale del plebeo e ambiguo Giuseppe Balsamo nel  controverso e affascinante conte di Cagliostro.

Lasciamo ora gli incontri con occultisti famosi per soffermarci sulle effettive pratiche “magiche” in cui Casanova, spesso ostentando scetticismo e forzato disprezzo, nondimeno indulgeva.

Il primo contatto con le scienze arcane avviene assai presto, nel 1746; Casanova risiede ancora a Venezia, dopo soggiorni a Napoli e a Corfù, e si guadagna da vivere modestamente suonando il violino a San Samuele. Ha però la fortuna di conoscere il senatore Matteo Bragadin, fratello del Procuratore di San Marco, che diviene suo intimo amico e protettore - qualcuno insinua in cambio di prestazioni antifisiques. E’ proprio questo potente personaggio che induce il giovane Casanova  ad un primo pericoloso bluff “occultistico”.

“Un giorno il signor Bragadin…mi disse che per essere così giovane la sapevo troppo lunga e che quindi dovevo possedere qualche virtù soprannaturale”. Per non contraddire il suo anfitrione il ragazzo inventa “una cosa stravagante e falsa”, cioè di possedere “una formula grazie alla quale potevo sapere tutto ciò che volevo…mi bastava trasformare in cifre un certo quesito e ricevevo una risposta pure cifrata. Il signor Bragadin spiegò che si trattava della clavicola di Salomone, volgarmente chiamata cabala…”. Quando Casanova aggiunge di aver appreso la pratica, mentre era prigioniero dell’armata di Spagna, da un eremita che abitava sul monte Carpegna, Bragadin dice che nella formula deve essere stata immessa sicuramente una intelligenza occulta “perché i numeri semplici non avevano le facoltà razionali”. Casanova prosegue attribuendo all’oracolo cabalistico il suggerimento che lo aveva indotto ad uscire ad una certa ora, tre settimane prima, in modo da realizzare per la prima volta il fortunato incontro con il suo protettore. Bragadin stupefatto vuole sperimentare subito i poteri della formula vergando su un foglio una domanda misteriosa che consegna al preteso cabalista. “Non ci capii nulla, ma non importava: bisognava rispondere. Se la domanda era oscura al punto che non ci capivo niente, dovevo dare una risposta altrettanto oscura. Risposi con quattro versi in cifre ordinarie che, dissi ostentando una completa indifferenza circa il loro significato, lui solo poteva interpretare”. Bragadin legge e rilegge la risposta come fulminato: “I numeri sono soltanto il veicolo – esclama – la risposta non può venire che da un’intelligenza immortale”. Anche gli amici di Bragadin pongono domande e tutti restano interdetti dalle risposte: chiedono a Casanova di insegnare loro la meravigliosa formula. Il furbone si dichiara disposto a farlo immediatamente: non crede minimamente all’ammonizione dell’eremita che, rivelandogliela, aveva aggiunto che se l’avesse insegnata a qualcuno prima di aver raggiunto cinquant’anni sarebbe morto improvvisamente in tre giorni. Nessuno naturalmente osa più mettere a repentaglio la vita del generoso giovane: la sua preziosa amicizia sarebbe valsa la conoscenza segreta. “Divenni così il gerofante di queste onestissime e amabilissime persone che però non potrei definire sagge, visto che tutte e tre erano infatuate di quelle che si chiamano scienze chimeriche…avendomi a loro disposizione pensavano di possedere la pietra filosofale e la medicina universale, di poter parlare con le intelligenze elementari e…celesti…Credevano anche alla magia, cui davano lo specioso nome di fisica occulta”. Casanova confessa di non aver mai avuto difficoltà ad accontentare tutte le numerose richieste della combriccola di conoscere i segreti del passato, del presente e dell’avvenire: le risposte erano sempre a doppio senso, “uno dei quali, noto solo a me, non si lasciava interpretare che a fatto compiuto. La mia cabala, così, non sbagliava mai e capii quindi come era stato facile agli antichi sacerdoti pagani infinocchiare gli ignoranti e i creduloni”. La spiegazione appare fin troppo semplicistica e Casanova sicuramente non dice tutto quel che sa, come non rivela fino in fondo la natura reale delle sue relazioni con Bragadin e soci, a suo dire “scapoli” e “irriducibili nemici delle donne, cui avevano da tempo rinunciato. A loro avviso, questa inimicizia per il sesso femminile era condizione indispensabile per dialogare con le intelligenze elementari: una cosa escludeva l’altra”.

Casanova non manca di notevole faccia tosta per giustificarsi di fronte ai suoi lettori per la sua condotta dichiaratamente fraudolenta: “ero un giovanotto che aveva bisogno di vivere bene e di godere tutti i piaceri che l’età esigeva…avrei forse dovuto…lasciar barbaramente esposti quei tre galantuomini agli inganni di qualche disonesto briccone che avrebbe potuto insinuarsi tra loro e condurli magari alla rovina, inducendoli a mettersi alla ricerca della pietra filosofale ?” – meglio lui dunque che aveva almeno il senso della misura ! Così in breve il giovane e bel violinista non ebbe più bisogno di esercitare la sua misera professione: fu adottato da Bragadin e ottenne una discreta rendita, una casa, un domestico e una gondola. Dopo questo iniziale e notevole successo Casanova continuerà in varie occasioni e per tutta la sua vita a fare uso frequente della sua preziosa cabala - a quanto racconta, sempre in palese ma mai riconosciuta fraudolenza: ad esempio a Parigi nel 1752 per la duchessa di Chartres che, con l’aiuto dell’oracolo, libera dai foruncoli divenendo l’attrazione delle signore della buona società, o ad Amsterdam nel 1760, dove la pratica in compagnia di una bella giovane di nome Ester, azzeccando perfino alcune operazioni borsistiche e sventando un affare truffaldino, che avrebbe rovinato il ricco padre della ragazza, da parte di Saint-Germain, poi denunciato agli Stati Generali dall’ambasciatore della corona di Francia e costretto alla fuga; o ancora a Parigi nel 1763, quando restituisce la voce perduta a madame du Rumain - una cantante che aveva già inutilmente “tentato con tutti i rimedi della farmacopea” per recuperarla - grazie ad “un culto al Sole nascente in una camera che avesse almeno una finestra volta ad oriente” a base di salmi e bagni in onore della Luna; statisticamente un po’ troppi colpi fortunati per uno che “tirava ad indovinare”.

Nel 1750 a Lione il preteso cabalista era finalmente entrato a far parte di una loggia massonica dove aveva presumibilmente ricevuto insegnamenti meno superficiali in campo esoterico di quelli da lui sempre pubblicamente ammessi; ma, seguendo il flusso delle sue memorie, è il 1748 l’anno che vede Casanova più direttamente calato nel ruolo di mago. L’avventuriero si trova a Mantova dove conosce per caso all’Opera un’eccentrico personaggio, certo Capitani, che sostiene di possedere il coltello con cui San Pietro tagliò l’orecchio a Malco e grazie ad esso di poter scoprire e dissotterare un mitico tesoro nascosto nella cantina di un conoscente di Cesena, nelle terre della Chiesa. Quel che gli manca è solo un mago capace di individuare il punto esatto in cui cercare. Casanova, fiutato l’affare, si presenta come mago e come prova dichiara al diffidente personaggio che uno spirito elementale ai suoi ordini gli svelerà a mezzanotte le virtù miracolose del coltello e gli rivelerà dov’è nascosto il tesoro: per il giorno dopo potrà dare prova a Capitani della veridicità delle sue affermazioni. Infatti il giorno seguente è in grado di riferire una fantasiosa storia - in base alla quale il tesoro sarebbe appartenuto addirittura a Matilde di Canossa e si troverebbe sepolto da sei secoli a circa trenta metri sotto terra presidiato da sette spiriti guardiani – e di mostrare anche un curioso reperto - in realtà da lui fabbricato facendo bollire una suola di stivale sfregata poi con la sabbia - un falso fodero per il magico coltello, fodero senza il quale le virtù meravigliose di questo non avrebbero potuto manifestarsi. Convinto e rassicurato, il cercatore di tesori stipula un contratto con il preteso mago e invia poi Casanova, accompagnato dal proprio figlio con un anticipo di mille scudi, sul luogo delle ricerche a Casena: la fattoria di un ricco contadino di nome Giorgio Francia. L’avventuriero adocchia subito  Genoveffa, la bella contadinotta figlia maggiore del padrone di casa. I cercatori si accordano di dividere il tesoro in quattro parti: una per il conoscente di Mantova, una per il contadino e due per il mago. Casanova chiede l’assistenza di una cucitrice vergine tra i 14 e i 18 anni, fidatissima  e capace di serbare il segreto per evitare ogni rischio con l’Inquisizione: si tratterà ovviamente dell’avvenente  Genoveffa. Inoltre avverte che prenderà alloggio in casa del contadino, mangerà due volte al giorno, berrà solo sangiovese e cioccolata a colazione e, nel caso non dovesse riuscire nell’operazione, pagherà tutte le spese. Si informa poi dei motivi in base ai quali Francia aveva dedotto di possedere un tesoro in casa: una tradizione che si tramanda di padre in figlio da otto generazioni – gli viene risposto – inoltre si sentono grandi colpi sottoterra per tutta la notte e la porta della cantina si apre e si chiude da sola ogni tre o quattro minuti “certo ad opera dei demoni che durante la notte vediamo aggirarsi per la campagna sotto forma di fiamme piramidali”. Casanova rassicura il contadino che, dati i fenomeni, possono stare sicuri che il tesoro c’è davvero e consiglia di non chiudere mai a chiave la porta che si apre e si chiude: in caso contrario ci sarebbe un terremoto e si formerebbe un cratere “perché gli spiriti vogliono sempre entrare e uscire liberamente per fare le loro faccende”. Il contadino conferma che un dotto chiamato da suo padre quarant’anni prima aveva detto esattamente le stesse cose: grazie a quell’uomo già la famiglia stava per recuperare il tesoro ma l’Inquisizione gli dava la caccia ed il padre dovette farlo fuggire prima di aver completato l’operazione. “Mi dica di grazia – chiede Francia – perché la magia non può opporsi all’Inquisizione?” – “Perché i monaci hanno al loro servizio più diavoli di noi” - risponde Casanova informandosi poi dell’onorario richiesto al padre dal dotto fuggiasco: circa duemila scudi.

Il mago comincia ad organizzare i preparativi della cerimonia magica: ciascun partecipante avrebbe cenato a turno con lui, in ordine di età; Genoveffa – che dovrà nel frattempo cucire con utensili nuovi comprati senza tirare sul prezzo la veste di tela bianca per il grande scongiuro - avrebbe dormito sempre nell’anticamera vicino al letto di Casanova dove ci sarebbe stata una vasca da bagno in cui questi avrebbe lavato, mezz’ora prima di mettersi a tavola, il convitato di turno, il quale avrebbe dovuto essere a digiuno. E’ tutta una scusa per approfittarsi della ragazza quando sarà arrivato il suo turno di essere lavata: nel giro di un paio di notti Genoveffa passerà direttamente dall’anticamera al letto di Casanova, che tuttavia, per non tradirsi, la serberà vergine per la notte della “grande operazione magica”. Nel frattempo il sedicente mago indaga sui misteriosi fenomeni descritti dal contadino: ogni tre o quattro minuti sente effettivamente il rumore della porta della cantina che si apre e chiude da sola ed i colpi provenienti da sottoterra a gruppi di tre o quattro al minuto ad intervalli regolari, “in tutto simili al rumore di un grosso pestello battuto con forza in un mortaio di bronzo”. Con le pistole pronte ed una lanterna in mano prova la porta: non c’è causa fisica apparente del fenomeno, eppure la vede coi suoi stessi occhi aprirsi lentamente e dopo qualche secondo richiudersi con violenza; “pensai tra me e me che dovesse esserci sotto qualche imbroglio”. Dal balcone vede poi in cortile “un andirivieni di ombre. Poteva benissimo trattarsi di masse d’aria umide e dense”. Quanto alle fiamme piramidali volteggianti per la campagna, non si trattava che di fuochi fatui, fenomeno ben noto allo scaltro avventuriero che però preferisce lasciar “credere ai.. compagni che fossero gli spiriti di guardia al tesoro”. 


Ancora un ritratto, in età più matura, di Cagliostro

Giunge finalmente la luna piena e la notte del rituale, ma lasciamo la parola a Casanova stesso: “Dovevo indurre gli gnomi a portare il tesoro alla superfice della terra, nel punto in cui li avrei attratti con i miei scongiuri. Sapevo bene che l’operazione non sarebbe riuscita, ma sapevo anche che sarei stato capace di spiegare per bene i motivi del mancato successo….Feci lavorare Genoveffa tutto il giorno per cucire in cerchio trenta fogli di carta su cui dipinsi in nero lettere e figure spaventose. Il cerchio, che chiamavo cerchio massimo, misurava tre passi di diametro. Mi ero poi fabbricato una sorta di scettro con il legno d’ulivo….Tolsi gli abiti di tutti i giorni e indossai la grande cotta che era stata toccata solo dalle mani pure dell’innocente Genoveffa. Mi sciolsi i capelli, che caddero fin sulle spalle, mi misi in capo la corona a sette punte; mi caricai sulle spalle il cerchio massimo; presi in mano lo scettro e con l’altra impugnai il coltello con cui San Pietro aveva tagliato un orecchio a Malco. Scesi quindi in cortile, stesi per terra il cerchio, gli girai intorno tre volte e vi saltai dentro”. Ecco però che, inaspettatamente, poco dopo l’inizio del rituale, si scatena una forte tempesta. “Sapevo che si trattava di un fenomeno naturale e non avevo la minima ragione di meravigliarmene. Ciononostante, avvertivo un principio di paura che mi faceva rimpiangere di non trovarmi in camera mia….Le saette che mi scoppiavano tutto intorno mi gelavano il sangue. In preda al terrore come ero, mi convinsi che se i fulmini non mi colpivano era perché non potevano entrare nel cerchio e così non osavo uscirne per correre al sicuro….Il mio sistema nervoso, che credevo a prova di bomba, era a pezzi. Dovetti riconoscere che esisteva un Dio vendicatore che mi aveva atteso al varco per punirmi di tutte le mie scellerataggini e per metter fine alla mia incredulità annientandomi”. Un solenne acquazzone pone fine ai terrori del sedicente mago: nel giro di un quarto d’ora di nuovo la luna piena brilla in un cielo terso. Casanova torna in camera e, rifiutando le attenzioni di Genoveffa, crolla in un sonno profondo. Al risveglio, il giorno dopo, prova un senso di disgusto per le sue macchinazioni e non sente più la minima attrazione per la bella contadina: “Per una sorta di superstizione conclusi che lo stato di innocenza di quella ragazza era protetto dal cielo e che sarei morto se avessi osato attentarvi”. Decide di partire precipitosamente, trovando ancora giustificazioni razionali al suo agire: qualche contadino potrebbe averlo visto nel cerchio e aver pensato che l’uragano fosse stato provocato dalle sue magie denunciandolo poi all’Inquisizione. Si congeda dunque dai suoi compagni giustificando il suo ritiro dall’operazione con la scusa di un patto concluso coi sette spiriti guardiani del tesoro; lascia a Francia e a Capitani una pergamena con tutte le informazioni avute dagli stessi spiriti sul tesoro - “sepolto alla profondità di diciassette tese e mezzo…Consta di diamanti, rubini, smeraldi e centomila libbre di polvere d’oro…” - si fa promettere che lo avrebbero aspettato per il recupero finale e fa bruciare corona e cerchio ma conservare gli altri oggetti in attesa del suo ritorno. Genoveffa è inconsolabile e Casanova le promette che si rifarà vivo presto e “per scrupolo di coscienza, ritenni doveroso dirle che non essendo la sua verginità più necessaria per l’estrazione del tesoro, era libera di sposarsi se le si fosse presentata l’occasione”. Prima di andarsene l’avventuriero riesce comunque a vendere al figlio di Capitani il falso fodero del magico coltello per cinquecento scudi romani.

Come si evince da questa pittoresca vicenda, la conclamata incredulità truffaldina di Casanova resta sempre profondamente ambigua e contraddittoria: un fondo di non detto emerge evidente nei suoi racconti e l’attenzione rivolta alle coincidenze improbabili e certi particolari che denotano una lettura ed una conoscenza tutt’altro che superficiale almeno del De Occulta Philosophia di Agrippa, oltre che dei grimoire dozzinali, convergono a smentire molte smargiassate volterriane e a sbugiardare l’ostentazione sprezzante di sicurezza e controllo del libertino, confermandolo assai più incline alla “superstizione” di quanto egli tenesse ad apparire. 

Non sarà un caso che, quando sarà rinchiuso nel carcere dei Piombi - dal quale riuscirà ad evadere nel modo audace e mirabolante da lui più volte descritto - le accuse, reali o pretestuose che fossero, da parte degli inquisitori di stato furono proprio quelle di eresia e stregoneria.

Nel 1755 Casanova è tornato a Venezia da due anni e si diletta tra complicati maneggi amatori e polemiche letterarie negli ambienti teatrali veneziani. Riceve la visita di un conoscente, un certo Manuzzi, in realtà spia degli inquisitori di stato (lavoro, sia detto per inciso, che Casanova stesso svolgerà, senza ufficiale contratto, nel 1776 per poter sopravvivere nella città natale dopo 18 anni di esilio), che notando “diversi libri sparsi qua e là” si sofferma su “alcuni manoscritti di magia. Divertito dal suo stupore, gli mostrai quelli che insegnavano a conoscere gli spiriti elementari. Come il lettore può ben immaginare, disprezzavo quei libri, però li avevo”. Il lettore immagina anche ben altro. Con la scusa di aver trovato un acquirente che offriva mille zecchini per i libri, ma che voleva prima controllarne l’autenticità, Manuzzi si appropria per qualche giorno dei volumi: si trattava de “La clavicola di Salomone, il Zecor ben (6), un Picatrix e un Libro planetario contenente ampie istruzioni sulle ore propizie per fare i profumi e gli scongiuri per evocare demoni d’ogni grado”. In realtà il delatore “li aveva portati al segretario degli inquisitori…costoro erano venuti a sapere che ero un insigne stregone”, contemporaneamente anche la Signora Memmo, madre di alcuni conoscenti di Casanova – tutti massoni e progressisti -  “essendosi messa in testa che incitavo i suoi figli all’ateismo, si raccomandò al vecchio cavaliere Antonio Mocenigo, zio di Bragadin, che ce l’aveva con me perché diceva che con la mia cabala gli avevo sedotto il nipote. La cosa era di competenza del Sant’Uffizio, ma siccome era difficile farmi rinchiudere nelle carceri dell’Inquisizione ecclesiastica, la signora Memmo e il cavaliere decisero di sottoporre la faccenda agli inquisitori di stato”. Le testimonianze contro Casanova si accumulano presso gli investigatori: fra le altre accuse c’è quella “di credere solo nel demonio. Gli accusatori sostenevano che quando perdevo al gioco, invece di bestemmiare Dio come facevano tutti i credenti, scagliavo le mie maledizioni al diavolo. Ero anche accusato di mangiare di grasso tutti i giorni e si diceva che c’erano buoni motivi per ritenermi massone”. Secondo il tribunale “la giovane contessa Bonafede era impazzita a causa dei filtri amorosi che le avevo somministrato: era ancora ricoverata all’ospedale e nel delirio non mancava mai di fare il mio nome coprendomi di maledizioni” (in realtà, secondo il seduttore, era impazzita perché egli non aveva più accondisceso alle sue brame amorose).

Il 25 luglio del 1755 Casanova viene arrestato. Resta però rinchiuso ai Piombi per meno di un anno: dopo la sua rocambolesca fuga ripara a Parigi, qui, nel 1757, conosce la sua futura protettrice e sovvenzionatrice, la marchesa Adelaide Marie-Thérèse d’Urfé, altro personaggio affascinato dal mondo della magia e dell’occulto.

Il nipote della marchesa, il conte La Tour d’Auvergne, era guarito da una sciatica alla coscia grazie all’applicazione, fatta quasi per gioco da Casanova, di una mistura a base di nitro, fiore di zolfo, mercurio e urina fresca del paziente, con la quale l’improvvisato taumaturgo aveva tracciato sulla parte malata una stella di Salomone pronunciando una formula di cinque parole – secondo Casanova del tutto inventate. La voce del miracolo si era sparsa per Parigi e la vecchia zia del conte “famosa per la sua competenza nelle scienze magiche e nota anche come grande alchimista…donna intelligente, ricchissima e unica padrona delle sue ricchezze”, aveva subito voluto incontrare l’apparentemente riluttante Casanova che ribadisce anche in questa occasione di aborrire “la reputazione di mago”. La marchesa, “una bella donna, benchè avanti con gli anni”, mostra all’avventuriero la sua biblioteca e si vanta di possedere già la pietra filosofale e di essere molto esperta in tutte le grandi operazioni. “Il suo autore preferito era Paracelso, che secondo lei, non era stato né uomo né donna e si era disgraziatamente avvelenato ingerendo una dose eccessiva di panacea”. La padrona di casa lascia consultare al suo ospite un piccolo manoscritto “che conteneva la spiegazione chiarissima, in francese, della grande opera”, puntualizzando che il testo era invece cifrato e “solo lei possedeva la chiave del cifrario”, e gli regala una copia della Steganografia dell’abate Tritemio. Dopo la biblioteca il visitatore viene introdotto nel laboratorio: gli viene mostrata una sostanza che si trova sul fuoco da quindici anni – grazie ad un marchingegno che rifornisce automaticamente di carbone il fuoco, eliminando le ceneri di scarto - e che dovrà restarci per altri cinque: una polvere di proiezione “atta a trasformare in un minuto qualsiasi metallo in oro”. Altre meraviglie presenti sono il mercurio calcinato; l’albero di Diana di Taliamed – un “vegetale metallico” composto “facendo cristallizzare insieme argento, mercurio e spirito di nitro” - ; un barile di “platino del Pinto” (il platino, scoperto nel Rio Pinto in Giamaica era stato introdotto in Europa solo nei primi anni ’40 del ‘700) che fondeva solo con lo specchio ustorio; un athanor in funzione da quindici anni; e un “commento di Raimondo Lullo che spiegava ciò che aveva scritto Arnaldo di Villanova dopo Ruggero Bacone e Geber, i quali, sempre secondo lei, non erano morti”. I due discettano a lungo di Agrippa e di Polifilo, di tartaro e di polvere di proiezione, di pentacoli e di Geni planetari. Casanova mostra come sempre una competenza eccessiva in materia per rendersi credibile al lettore come furbesco improvvisatore e casuale orecchiante: “Ho disegnato sulla coscia del signor di La Tour d’Auvergne il pentacolo di Salomone nell’ora di Venere – spiega ad esempio alla sua versata interlocutrice - e l’operazione non sarebbe riuscita se non avessi cominciato con Anael, che è il Genio di quel pianeta…Si deve passare a Mercurio, da Mercurio alla Luna, dalla Luna a Giove e da Giove al Sole. Come vede è il ciclo magico secondo il sistema di Zoroastro. Salto solo Saturno e Marte che la scienza esclude da questa operazione”. “Vedo che lei ha molta familiarità con le ore” – commenta la marchesa – “Altrimenti non si potrebbe far nulla in magia, perché non si ha il tempo di far calcoli. Ma non è difficile. Basta un mese per impratichirsi. Più difficile è il culto, perché è complicato. Ma ci si arriva…”. Si scambiano poi il giuramento segreto dei Rosacroce.

Da quel momento in poi la marchesa d’Urfé riterrà Casanova “un vero iniziato sotto le sembianze di un uomo qualunque”; l’avventuriero le rivela il nome del suo Genio, Paralis, e la raggira con la solita cabala – che però gli permette di decifrare davvero, grazie a non meglio precisati calcoli, la chiave segreta del manoscritto sulla Grande Opera in possesso della marchesa e noto solo a lei. “Andandomene quel giorno – confessa Casanova – portai via con me il suo animo, il suo cuore, la sua intelligenza e quel poco di buon senso che le rimaneva…ne abusai tutte le volte che potei”.

L’anziana nobildonna attribuisce al suo protetto poteri sovrumani e si convince con il passare del tempo che “mediante una operazione che doveva essermi nota avrei potuto farla entrare sotto forma di spirito nel corpo di un bimbo maschio nato dall’accoppiamento filosofico tra un immortale e una mortale o di un mortale con un essere femminile di natura divina. Secondando le folli idee della signora non ritenevo di ingannarla, perché ormai lei era fatta così e non sarei mai riuscito a farle cambiare parere. Se, da uomo onesto, le avessi detto che le sue idee erano assurde, non mi avrebbe creduto…non potevo che divertirmi continuando a farmi giudicare il più gran Rosacroce e l’uomo più potente del mondo da una signora legata alle maggiori case di Francia e ricchissima per il suo patrimonio liquido più ancora che per le ottantamila lire di rendita provenienti da varie terre e da palazzi che possedeva a Parigi. Sapevo, senz’ombra di dubbio che in caso di bisogno non mi avrebbe potuto rifiutare nulla…”. La d’Urfé si è messa in testa di voler diventare un uomo e attribuisce a Casanova il potere di operare quella trasformazione: insiste ripetutamente ed alla fine, durante un ennesimo incontro, il veneziano è “costretto” ad ammettere di poter compiere il miracolo, ma, per schermirsi, precisa di non voler procedere all’operazione perché questa provocherebbe la morte di lei. Questo avvertimento non scompone la marchesa che afferma di essere pronta e di sapere già anche che dovrà morire dello stesso veleno che uccise Paracelso – il quale però non ottenne l’ipostasi non essendo “né uomo né donna, mentre bisogna essere perfettamente l’uno o l’altra”. Casanova allora aggiunge che non si può preparare quel veleno se non si dispone di una salamandra, ma la marchesa imperterrita è convinta di possederlo già nel suo laboratorio: “mi manca solo il bimbo dotato del verbo maschile ricevuto da una creatura immortale. So che tutto dipende da lei e non credo che una malintesa pietà per questa mia vecchia carcassa le tolga il coraggio necessario”. L’avventuriero, non a caso figlio di attori, finge di piangere guardando malinconicamente fuori della finestra, poi con un coup de théatre da professionista, prende la spada ed abbandona precipitosamente la camera sospirando.

Per sua fortuna importanti affari “finanziari e diplomatici” allontanano per qualche tempo Casanova da Parigi: la minacciata operazione magica viene per il momento accantonata. Nel 1759 è di nuovo di ritorno nella capitale francese e, arrestato per una lettera di cambio non pagata, viene liberato per intervento della marchesa che lo rifornisce come sempre di denaro. Viene poi invitato da lei ad un pranzo in compagnia di Saint-Germain: la marchesa porta al collo una grossa calamita perché spera che un giorno o l’altro questa possa attirare un fulmine “e con quel sistema lei sarebbe ascesa al cielo”. Poiché Saint-Germain si vanta di poter conferire ad una calamita una forza mille volte maggiore di quella che le danno i fisici, Casanova, con fare gelido, scommette ventimila scudi che il conte non sarebbe riuscito nemmeno a raddoppiare la forza  della calamita che la signora portava al collo. La marchesa però interviene per impedire la scommessa convinta che il mago Saint-Germain avrebbe sicuramente sconfitto il mago Casanova. Anche quest’ultimo, seppur a malincuore, rinnova le sue manifestazioni di invidia e ammirazione per il rivale: “In vita mia non ho mai conosciuto un impostore più abile e più seducente”.

Fra i molti aneddoti caratteristici della singolare relazione fra Casanova e la d’Urfé ce n’è un altro particolarmente divertente in cui la taumaturgia paracelsiana ha un ruolo del tutto secondario rispetto all’astuzia e alla lascivia dell’avventuriero italiano. Questi ha preso a cuore la sorte di una fanciulla che minaccia il suicidio se non riuscirà ad abortire, chiede pertanto consiglio alla marchesa su un metodo abortivo assolutamente sicuro. Questa risponde senza esitazioni che l’Aroph di Paracelso è un rimedio infallibile: si tratta di un unguento di zafferano in polvere, mirra e altri ingredienti e miele come veicolo. Casanova pur ridendo della ricetta “assurda a lume di un po’ di buonsenso”, si risolve a consigliare l’intruglio alla sua protetta aggiungendo però agli ingredienti una significativa variante: “dello sperma che non avesse perduto nemmeno per un istante il suo calore naturale”; la convince poi che “in assenza del suo uomo, le ci sarebbe voluto un amico che potesse rimanere con lei senza suscitare sospetti, per amministrarglielo tre o quattro volte al giorno”.  Ovviamente si offre volontario e, dopo qualche esitazione, la bella giovane accetta le “applicazioni” che ovviamente non sortiranno l’effetto voluto anche se alla fine, grazie agli abili maneggi dell’intraprendente protettore, la sfortunata ragazza troverà perfino un marito consenziente salvando sia il bambino che l’onore: tutto è bene quel che finisce bene.

Più attinente al nostro tema è la serie dei numerosi riti celebrati da Casanova per la Marchesa d’Urfé fra i quali in particolare quello riguardante un insolito scambio di missive, svoltosi ad Aquisgrana, fra la nobildonna e Selenis, uno spirito lunare. Così l’avventuriero ci descrive il climax della paradossale vicenda: “Nel giorno fissato sulla base della luna condussi la marchesa a cena in una villa con giardino fuori città, dove, in una stanza al pianterreno, avevo preparato tutto quello che era necessario alla cerimonia. Avevo in tasca la lettera che doveva scendere dalla luna in risposta a quella che la marchesa aveva preparato con cura e che dovevamo spedire a destinazione. A qualche passo dalla stanza della cerimonia avevo fatto mettere una grande vasca piena d’acqua tiepida mescolata ad essenze che piacciono all’astro delle notti e in cui io e la marchesa dovevamo tuffarci insieme…Dopo aver bruciato gli aromi e sparso le essenze tipiche del culto di Selenis, recitammo le preghiere misteriose e ci spogliammo completamente. Quindi tenendo la lettera nascosta nella mano sinistra, con la destra guidai, con estrema gravità, la marchesa presso il bordo della vasca dove si trovava una coppa d’alabastro piena di spirito di ginepro cui diedi  fuoco, pronunciando parole cabalistiche di cui io stesso ignoravo il significato e che comunque lei ripetè consegnandomi la lettera indirizzata a Selenis. Bruciai la lettera alla fiamma del ginepro su cui la luna splendeva in pieno e quella credulona di una d’Urfé mi assicurò che seguendo i raggi dell’astro aveva visto salire in cielo i caratteri da lei vergati. Entrammo quindi nella vasca e dieci minuti dopo la lettera che tenevo nascosta nella mano e che era scritta in cerchio e in caratteri d’argento su una carta verde lucida, apparve sulla superficie dell’acqua”. Nella lettera di Selenis la marchesa apprende che la sua “ipostasi” deve essere differita ancora fino all’anno seguente (in realtà il mago cerca di ritardare il pericoloso rito trasformativo che potrebbe costargli la fiducia della sua protettrice) e impone alla nobildonna di aiutare alcune signore (che Casanova vuole beneficare a spese della “credulona”). 

Nel 1763 a Marsiglia, però, Casanova non è più in grado di temporeggiare ed il rito di “rigenerazione” in qualche modo deve compiersi: “I riti lunari ebbero fine il sabato, e così feci in modo che l’oracolo fissasse il grande momento per il martedì, nelle ore del Sole, di Venere e di Mercurio che nel sistema planetario dei maghi si succedono come nell’immaginazione di Tolomeo. Per l’esattezza quelle ore corrispondevano alla nona, alla decima e all’undicesima ora di quel giorno, poiché essendo martedì, la prima ora sarebbe stata quella di Marte. E poiché eravamo ai primi di maggio e le ore perciò erano di sessantacinque minuti, il lettore, pur sapendo poco di magia, può calcolare facilmente che l’operazione sulla marchesa d’Urfé doveva svolgersi tra le due e mezza e le sei meno cinque”.

Casanova avrebbe, in base all’oracolo, dovuto fecondare Séramis (nome RosaCroce della marchesa) due giorni dopo la fine dei riti e “un’affascinante Ondina” sarebbe comparsa a purificare i due celebranti (si trattava in realtà di Marcolina, amante di Casanova in quel tempo). Con la solita faccia tosta il mago confessa di aver preso le dovute precauzioni per non fare brutta figura: “La marchesa era bella, ma era vecchia: mi sarebbe anche potuto capitare di non farcela, tanto più che ormai trentottenne, mi accorgevo di essere spesso soggetto a siffatto inconveniente. Per questo avevo pensato a procurarmi un aiuto e la bella Ondina che dovevo ottenere dalla Luna era ovviamente Marcolina che, facendomi il bagno, mi avrebbe certo dato la forza rigeneratrice che mi era necessaria”. Un vero e proprio rito di magia sexualis, dunque. All’ora convenuta Marcolina, tenuta fino ad allora nascosta nell’armadio della camera di Casanova, fa il suo fantomatico ingresso come Ondina nella sala del rito: consegna un foglio bianco alla marchesa che capisce di dover consultare l’oracolo. Casanova traccia la piramide di numeri e la marchesa la interpreta: “Quel che è scritto nell’acqua non può esser letto che nell’acqua”. Immerge il foglio nella vasca da bagno e legge “in caratteri più bianchi della carta: ‘Sono muto ma non sordo. Esco dal Rodano per farle il bagno. L’ora di Oromasis è giunta’”. Oromasis, il re delle salamandre, sarebbe stato il testimone dell’unione fra il mago e la sua discepola che, fecondata dal Verbo del Sole, avrebbe partorito un’altra sé stessa mutata di sesso e sarebbe poi morta. I due celebranti si spogliano e prendono posto nella vasca, sempre assistiti dall’Ondina. Casanova si unisce allora a Séramis “ammirando le bellezze di Marcolina, che non avevo mai guardato con tanta attenzione come quella volta” – confessa il grande amatore – “Tuttavia la marchesa, tenera, amorevole, curata e niente affatto disgustosa, non mi spiacque”. L’operazione viene ripetuta più tardi nell’ora di Venere: “il secondo assalto…doveva essere il più duro, perché l’ora era di sessantacinque minuti. Entrai in lizza e sfaticai mezz’ora…La marchesa mi asciugava la fronte dal sudore che mi colava dai capelli mescolato alla pomata e alla cipria e l’Ondina, accarezzandomi con sapienza, rianimava ciò che il vecchio corpo che ero obbligato a toccare distruggeva, ma la natura si rifiutava di assecondare i miei sforzi di chiudere in bellezza”. In qualche modo anche la seconda operazione giunge al termine, ma comincia la terza ora, sacra a Mercurio, ed è solo grazie alle sapienti arti cortigianesche di Marcolina – “divenuta, tutto ad un tratto lesbica” - che Casanova riesce di nuovo a trovarsi “non senza la folgore ma senza la forza di farla scoppiare”. Simulando “una vera e propria agonia accompagnata da convulsioni che terminarono in una specie di deliquio”, il mago pone finalmente termine al rituale. I contendenti, stremati, possono finalmente concedersi il meritato riposo: “Séramis, ispirata dal suo Genio, si tolse la collana e la mise al collo della bella fanciulla che, dopo averle dato un bacio alla fiorentina, fuggì a nascondersi nell’armadio”. Più tardi la vecchia Séramis chiede a Casanova di sposarla: “potrà essere il tutore del mio bambino che sarà suo figlio: lei potrà così conservare tutti i miei beni ed entrare in possesso di ciò che devo ereditare…Se non sarà lei ad occuparsi di me il prossimo febbraio, quando rinascerò uomo, chi mi proteggerà? Sarò dichiarato bastardo e mi toglieranno le ottantamila lire di rendita che invece lei può conservarmi…Dentro di me mi sento già un uomo. Glielo confesso, sono innamorato dell’Ondina e voglio sapere se potrò andare a letto con lei fra quattordici o quindici anni. Se Oromasis lo vuole, lo può…”. Casanova risponde dicendo che sarà l’oracolo a illuminarli e guidarli sempre e che per quanto riguardava lui, non avrebbe mai permesso che suo figlio fosse dichiarato bastardo: “A queste parole la marchesa si sentì rassicurata e…si tranquillizzò…Se il lettore pensa che, come uomo d’onore, avrei dovuto disingannarla, si sbaglia, perché era impossibile”. Dopo averla indotta a partire per Lione - continuando per conto proprio un semplice rito individuale nell’ora della luna – il cavaliere di Seingalt, di nuovo temporanemente libero, parte per nuovi avventurosi vagabondaggi. Qualche tempo dopo viene informato per lettera che la marchesa è morta avvelenata da una dose troppo forte “di un liquore che lei chiamava medicina universale. Inoltre…era stato trovato un testamento insensato, con cui la marchesa, convinta di essere incinta, lasciava tutti i suoi averi al primo figlio o figlia che avesse partorito”. In realtà quest’affermazione è una delle più grosse frottole raccontate da Casanova e resta tuttora inspiegata ed imbarazzante per i casanovisti: la marchesa d’Urfé, infatti, morì solo nel 1775 - ben dieci anni dopo la data riportata nell’Histoire de ma vie - lasciando un testamento perfettamente ragionevole in favore del legittimo nipote, e pare che il cavaliere di Seingalt, come attestano delle lettere ritrovate, lo sapesse benissimo. “Fossi venuto a sapere che la mia buona signora d’Urfé era morta o rinsavita per me avrebbe avuto lo stesso effetto” – confessa l’avventuriero in un altro passo delle sue memorie: l’ipotesi più probabile è che la vecchia avesse ormai mangiato la foglia, dopo il mancato ingravidamento conseguente al rito di magia sessuale, abbandonando finalmente il suo protetto al destino che lo attendeva: l’orgoglioso intrigante preferiva considerarla morta piuttosto che ammettere il naufragio definitivo dei suoi magici maneggi.

Con questo episodio terminano le esperienze più esplicitamente occultistiche narrate nella Storia della mia vita.

Anche limitandoci solo agli aneddoti, presumibilmente abbelliti e rimaneggiati, riportati dalla sua testimonianza, Giacomo Casanova,  si conferma, in ultima analisi, come una figura perfettamente inserita in quella galleria di personaggi settecenteschi a metà strada fra impostura e candore, scetticismo e credulità, modernità illuminata e ombroso vecchio mondo, razionalismo e magia, che vede fra i suoi esponenti più celebrati – almeno in questo ruolo – Saint-Germain e Cagliostro. Le apparenti antitesi emergono come complementarità effettive forse utili a tracciare una nuova mappa di quell’Illuminismo la cui immagine ci è probabilmente sempre stata tramandata in modo forzato e incompleto. Come i grandi anticipatori Giordano Bruno e Isaac Newton – se non ci limitiamo ad estrapolare le intuizioni più geniali di alcune loro opere ma li ricollochiamo globalmente nel loro contesto storico, tornano ad apparirci anche come maghi e alchimisti – così gli uomini del “secolo della ragione” finiscono per assomigliare complessivamente più al riluttante e reticente Casanova e ai suoi sodali ambigui che agli illuminati philosophes.

A differenza di Cagliostro però Casanova sopravvive, dissimula e bara sempre sapientemente: pavoneggiandosi per la sue visite frequenti ed i suoi passati rapporti amichevoli con Voltaire e Rousseau; sminuendo e sdrammatizzando le sue pratiche irrazionali (meglio apparire un truffatore che un credulone); ostentando una quanto mai forzata fedeltà al cristianesimo e alla chiesa cattolica ma contemporaneamente, ancora nel 1797, inneggiando alla Rivoluzione francese (“Viva la Repubblica ! E’ impossibile che un corpo senza testa commetta pazzie”); e riesce a morire in età, per l’epoca, accettabilmente tarda - settantatrè anni - dopo essersi assicurato un impiego dignitoso come bibliotecario nel castello di Dux in Boemia per il conte di Waldstein, dove forse non felicemente ma almeno tranquillamente, può dedicarsi alla letteratura e alla matematica, sue passioni di sempre, e all’edificazione letteraria del suo mito. Valgano in chiusura le sue stesse considerazioni conclusive su sé stesso, ad un tempo sincere e ingannevoli come sempre: “Vizio non è sinonimo di delitto, perché si può essere viziosi senza essere criminali. Tale sono stato io durante tutta la mia vita e anzi oso dire che sono stato spesso virtuoso proprio nel momento stesso in cui ero vizioso, perché se è vero che ogni vizio è necessariamente opposto alla virtù, è anche vero che esso non nuoce all’armonia universale. I miei vizi del resto sono sempre stati a mio carico, ad eccezione dei casi in cui mi sono servito delle arti della seduzione, ma la seduzione non è mai stata l’elemento caratterizzante della mia natura, dal momento che ho sempre sedotto senza sapere di farlo ed essendo a mia volta sedotto”.

 

Note:

(1) Tutte le citazioni sono tratte da Giacomo Casanova, “Storia della mia vita”, a cura di Piero Chiara e Federico Roncoroni, Mondadori, Milano 1983-84-89, vol. I-II-III.

(2) Piero Chiara, prefazione a Giacomo Casanova, “Lettere a un maggiordomo”, Edizioni Studio Tesi, Trieste 1985, pag. XV

(3) Piero Chiara, cit. , pag. IX.

(4) Nella monumentale bibliografia casanoviana pochi sono gli studi dedicati espressamente a questo aspetto minore delle sue molteplici attività: una delle poche eccezioni – purtroppo ormai introvabile – è il testo tedesco di B. Marr, Casanova als Kabbalist, del 1913

(5) Sui rapporti fra Casanova e Saint-Germain esiste un capitolo: Une enigme historique: Casanova et Saint-Germain, in Edoardo Maynial, Casanova et son temps, 1910

(6) Cioè il Sefer ha-Zohar, il ”Libro dello splendore”, classico della Kabbala ebraica

 

 

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