Mostri, belve, animali nell'immaginario medievale / 14

La pantera

Franco Cardini - Ordinario di Storia Medievale, Università di Firenze

Tra le sette specie a noi note di grossi felini, cinque appartengono al genere "panthera": il leone, la tigre, il leopardo, il giaguaro, il leopardo delle nevi. Comunemente pantera è sinonimo di leopardo. Ma a quale di questi animali si allude quando ci si imbatte in "pantere" nelle fonti egizie, greche, romane o medievali?

Menade con una pantera, ceramica del V secolo a.C.

Quando si parla di animali esprimendoci in una qualunque lingua moderna, ma per indagare sul loro statuto nelle culture antiche o in culture tradizionali estranee a quella occidentale, non ci si può esimere dall'interrogarci anzitutto sui termini. Che cosa vuol dire, ad esempio, intrattenersi sulle caratteristiche mitico- simboliche della pantera? Tutti ne conosciamo alcuni dati: il comparire nell'abbigliamento dei sacerdoti egizi di una sua pelle; il suo partecipare al corteggio di Dioniso; le leggende relative al suo alito profumato; le metafore erotiche tessute su di lei dalla poesia medievale. Ma di quale animale stiamo in realtà parlando?

Se diciamo "cavallo", "leone", "aquila", grosso modo ci si intende. Sappiamo che in realtà ne esistono varie razze, ma tutto sommato si tratta di animali che hanno una loro forte identità. Con il cane, ad esempio, siamo già in un'area di maggiore difficoltà: a quale tipo di cane si possono attribuire le storie di Esopo, o le qualità decantate nei romanzi cavallereschi i quali spesso ci vengono in aiuto, del resto, indicandoci levrieri e bracchi come razze privilegiate?

La pantera è davvero un grosso enigma. Oggi, la parola latina panthera designa un genere di mammiferi dell'ordine dei carnivori, sottordine fissipedi, famiglia felidi. Tra le sette specie note di grossi felini, cinque - il leone, la tigre, il leopardo, il giaguaro, il leopardo delle nevi - appartengono al genere panthera; una, quella del leopardo nebuloso, a quello neofelis; una, il ghepardo, all'acinonyx. Nel parlare comune, pantera è sinonimo di leopardo (panthera pardus). A quale di questi animali si allude, quando ci si imbatte in "pantere" o in "leopardi" nelle fonti egizie, greche, romane o medievali? Gli zoologi antichi e medievali parlavano abitualmente di pardus come di una pantera maschio, e dicevano il leopardo il prodotto dell'accoppiamento del pardus con la leonessa: ma questa era una distinzione colta, di dubbia forza sul piano delle rappresentazioni tradizionali che in genere sono più stereotipe e si preoccupano meno di precisare le caratteristiche zoologiche degli animali presi a fungere da vocaboli del linguaggio simbolico. A noi, del resto, interessa più il permanere d'una tradizione che non il suo rapporto con la zoologia.

Ignoriamo da dove venisse la pelle di leopardo usata come parte dell'abbigliamento dei sacerdoti egizi, specie nei riti funebri.

Le "confraternite-leopardo" di alcune culture tradizionali asiatiche potrebbero forse darci una prima e approssimativa risposta. Ma l'unico grande felino che viva nel continente africano come nell'Asia del sud-ovest è il velocissimo e ben addomesticabile acinanyx jubatus, il ghepardo. Era questa nobile e carezzevole fiera dal mantello screziato a dar veste a Seth, il dio del male, e a rappresentare quindi sulle spalle dei sacerdoti che il male era stato immolato? Credenze e pratiche correlate al rapporto fra l'uomo e i grandi felidi si ritrovano nelle culture sciamaniche dell'Asia centrale (a proposito della panthera uncia, il leopardo delle nevi) e nelle culture indie dell'America latina (a proposito della panthera onca, il giaguaro). Aquile e giaguari sono, nella tradizione azteca, animali-guida di altrettante confraternite guerriere.

Miniatura da un bestiario inglese, XII secolo

Miniatura da un bestiario inglese del XII secolo.


Il Leopardo delle nevi, dettaglio da una miniatura persiana del XVII secolo relativa al ciclo di Majnun nel deserto.

Il leopardo delle nevi ha un ruolo specifico nella cultura cinese: il suo ingresso e la sua uscita dalla tana invernale segnano i ritmi stagionali, per cui esso è considerato un simbolo dell'anno solare. Al leopardo si assimila di solito un animale mitico dal nome enigmatico, p'o-ching, "specchio rotto", nome che sembra avere a che fare con le fasi della luna.

Nella tradizione biblica, incontriamo il pardus nella visione di Daniele (Dn., 7, 2-7), al quale appaiono successivamente quattro grandi animali, emergenti tutti dal mare: un leone con ali d'aquila, un orso, una pantera munita di quattro ali d'uccello e una bestia... terribilis atque mirabilis dall'aspetto imprecisato ma dai denti di ferro e dalle dieci corna.

Nella tradizione esegetica queste quattro fiere sono di solito interpretate come il simbolo dei quattro imperi con i quali Israele ebbe successivamente a che fare tra VI e III secolo a.C., vale a dire, nell'ordine: il babilonese, il persiano, quello di Alessandro spartito poi tra i diadochi (la pantera ha infatti non solo quattro ali, ma anche quattro teste) e, infine, quello seleucide.

L'indicazione relativa alla pantera come simbolo dell'impero di Alessandro Magno è non solo preziosa, ma anche altamente pertinente. Vi torneremo.

Il IV secolo a. C. segna un momento fondamentale nella storia fisiologico-simbologica della pantera: Aristotele fonda, nella Animalium historia, il fortunato topos della pantera quale belva dall'alito profumato, che di esso si servirebbe per attirare - da quella cacciatrice che è - la sua preda; è ancora Aristotele, nei Problemata inedita, a giustificare la presenza di quell'animale nel tiaso[1] di Dioniso in quanto la sua pelle macchiata simboleggerebbe la varietà di atteggiamenti presenti nell'ubriaco. Ed eccoci alla fondazione delle tre funzioni-base che configurano lo statuto della pantera: la caccia; l'attrazione (simbolizzata dall'alito profumato), che la collega all'eros; la variegatura della pelle, antico vocabolo malefico secondo i sacerdoti egizi ripreso e reinterpretato come simbolo d'instabilità psichica dal commento aristotelico che l'avvicina agli stati d'animo degli ebbri (ma si potrebbe forse andar oltre, e riferirsi alle vesti variegate dei folli e dei giullari nel Medioevo).

Poiché nel mondo greco la pantera è animale soprattutto orientale - ed è quindi probabile lo si interpreti soprattutto come il ghepardo, frequente in Persia[2] - lo si pone in stretto rapporto con il mondo dionisiaco, che specie dopo il viaggio trionfale di Alessandro ha invaso l'immaginario ellenico e che ha condotto fra l'altro a un'identificazione fra il dio figlio di Zeus e di Semele e il conquistatore macedone. In realtà, però, le cose debbono essere più complesse.

Intanto la Pothnia theron, la Signora degli animali - e quindi della caccia - è raffigurata sovente (si pensi a Satal-Hüyük) come Signora delle Pantere.

Marcel Detienne ha però sottolineato il nesso strettissimo tra amore e caccia esercitando una fine esegesi della pyxis attribuita al "Pittore dell'Amymomé di Würzburg" pubblicata nel 1972 da Erika Simon. Nell'oggetto, posseduto dal Martin von Wagner Museum dell'Università di Würzburg, figura quale compagno di un Eros, un felino che è molto probabilmente un ghepardo. Nell'interpretazione della Simon, il ghepardo - abitualmente usato nella caccia già nell'Egitto almeno dopo la XVIII- XIX dinastia - sta a interpretare la passione della caccia, alla quale - nel contesto della pyxis - si contrapporrebbe il richiamo dell'amore. Adone, al bivio, dovrebbe scegliere fra queste due contrapposte passioni. Troviamo ancora un felino al guinzaglio in una coppa di Vulci posseduta dal British Museum: ed è difficile dire di quale animale con precisione si tratti giacche il greco classico dispone soltanto di due termini, pàrdalis e pànther, per indicare il felide cacciatore dalla pelle screziata. Eliano, nel suo trattato sulla natura degli animali, parla di un cacciatore che aveva addomesticato una pàrdalis: ma la tecnica relativa a tale addomesticamento era in realtà ben conosciuta tra Africa settentrionale e India.

Leopardo, dettaglio da un arazzo del XV secolo.

Nel sistema zoologico-simbolico dei Greci, la pantera è anzitutto cacciatrice: tuttavia ha un tratto che la collega ad animali che, pur essendo razziatori e cacciatori essi stessi, non si possono definire belve. Al pari ad esempio della volpe, essa possiede phronesis, astuzia; e - lo rileva lo stesso Esopo, proprio parlando d'un dialogo fra la Volpe e la Pantera - esiste un rapporto fra screziatura della pelle e l'estro dell'intelligenza (poikilìa è il termine greco che può individuare entrambe le cose). Eliano fornisce varie prove della phronesis della pantera: essa, ad esempio, sa fingersi morta per catturare le scimmie che altrimenti non le si avvicinerebbero. Ma il capolavoro della phronesis della pantera (una phronesis naturale, si direbbe) è il profumo: una qualità che, dice Teofrasto, essa non condivide con alcun altro animale. È anche un irrisolto Problema aristotelico, quello del perché la pantera sia l'unico animale profumato. E lo era tanto che nella città di Tarso, come ricorda anche Plinio, si produceva un tempo un profumo ricercatissimo, il "Panterico" (Pardalium).


Giaguaro con collare, argilla zapoteca databile tra il II secolo a C. e il II secolo d.C.

Nessun animale può restare insensibile al fascino odoroso della pantera; ed essa, al contrario, è attirata dagli aromi. Filostrato, nella sua Vita di Apollonio di Tiana, narra di pantere che dall'Armenia giungevano in Panfilia attirate dalle foreste di quella regione, ricche di balsamiche essenze. Nel suo Cynegetica, poema della fine del II secolo d.C. che tratta della caccia, Oppiano sostiene che uno dei mezzi per catturare le pantere consiste proprio nello spargere del vino in prossimità dei punti nei quali esse vengono ad abbeverarsi. La pantera, difatti, non resiste al vino e se ne inebria facilmente.

Si configura in tal modo un "triangolo funzionale" della pantera: i suoi tre vertici sono la caccia, l'inganno (la pelle maculata e il bell'aspetto che nasconde la ferocia) e l'eros. Anzi, si può dire che l'inganno è il termine medio, nel quale la caccia condotta con astuzia (il buon profumo) e l'eros inteso come seduzione, convergono. E difatti, per Aristofane, la cortigiana seducente e profumata ( "felina", diremmo noi) è appunto una pàrdalis, una pantera: in Lisistrata, il desiderabile corpo della donna, adorno di belle vesti profumate, è appunto un felino di questo tipo. E Detienne ha buon gioco nell'osservare che a questo punto caccia e amore non sono più termini antitetici bensì valori correlativi, anzi identificantisi, se la seduzione può non casualmente essere definita aphrodisia àgra, "caccia di Afrodite".

Ma se la pantera di Afrodite e di Adone è essenzialmente una metafora dell'eros con le sue seduzioni, un'altra accezione esegetica del medesimo animale ci porta in un'atmosfera diversa. Per quanto non estranea: il tramite fra i due ambiti è difatti il vino, bevanda erotica ma anche liquore sacrale. La pantera è animale dionisiaco: pantere sono aggiogate al carro trionfale del dio nel suo "trionfo indiano", imitato da Alessandro domitor Orientis il quale - dice Teofrasto e sul suo modello ripete Plinio - "tornò vincitore dall'India, sull'esempio del padre Dioniso". Da Pompeo a Giuliano, i capi di Roma amarono conformarsi al modello dionisiaco- alessandrino .

In ogni modo la pantera e la capra fanno parte del tiaso dionisiaco e vengono assimilate, alternativamente o insieme, alle menadi: vero è che per la capra si è potuto accertare (o almeno ragionevolmente supporre) che il trait d'union con la menade sia lo smembramento e l'omofagia, il che resta difficile da supporre per la pantera; ma essa potrebbe al contrario, proprio in quanto carnivoro feroce e goloso di vino - e dalla pelle screziata, allusiva all'incerto aspetto e alla capacità metamorfica delle menadi (e alle false immagini che il dio genera e sulle quali insiste a buona ragione Euripide) - ricondurre al carattere e alla funzione della menade cacciatrice notturna, sbranatrice, carnivora. Lo Jeanmaire rammenta al riguardo la pelle animale che era veste delle sacerdotesse cretesi, e che potrebbe alludere alle capacità metamorfiche ma anche ai loro poteri di Signore degli Animali; e richiama - con ardimento metacronico che però, sul piano antropologico, non è implausibile - alle metamorfosi in animali selvatici delle streghe nel folklore europeo. In ciò, l'illustre studioso del fenomeno dionisiaco ripercorre i sentieri già esplorati dal classico, vetusto lavoro di W. Mannhardt sui culti delle foreste e dei campi, che è del 1877. Ed è notevole il fatto che un intelligente politologo dei nostri giorni, Giorgio Galli, scrivendo un libro sulle culture "vinte" del nostro vecchio Occidente traccia - pur senza utilizzare ne Mannhardt, ne Jeanmaire - un "filo rosso" che congiunge le baccanti alle streghe. È sempre un felide dalle caratteristiche inquietanti e femminee - la pantera per le menadi, il gatto per le streghe - a percorrere questo filo.

E ciò va detto anche se l'assimilazione definitiva delle menadi alle pantere si ha soltanto nel tardivo poema cinegetico di Oppiano, il quale rielabora il mito di Dioniso facendoci assistere a una vera e propria metamorfosi delle baccanti in pantere squartatrici di capri, cervi, tori in sacrifici che potrebbero adombrare o aver sostituito i sacrifici umani; e in tal senso i "misteri" dionisiaci potrebbero a loro volta aver soppiantato precedenti riti in onore della cacciatrice e lunare Artemide.

Ma nel Medioevo il tiaso notturno che i vescovi tedeschi del X-XI secolo chiamavano "società di Diana" (una "Diana" germanica: forse Freya?) è il primo nucleo concettuale del sabba stregonico: e il cerchio sembra chiudersi.

Rispetto alla ricchezza di questo quadro mitologico addensato attorno al tema delle cacce e dei riti notturni, il mondo romano sembra aver al solito messo in campo una drastica reductio: Plinio associa la pantera alla tigre per la pelle screziata, parla delle macchie "a forma di occhio", del mantello della panthera, si associa all'osservazione aristotelica dell'aroma con il quale la pantera attira la selvaggina, ma sostiene che essa, per non spaventare le sue vittime con il suo aspetto feroce, nasconde la testa. La natura lunare della pantera (di nuovo Artemide?) è ribadita dalle osservazioni pliniane sulla forma lunata di una macchia che tale belva porterebbe sulla spalla, e che crescerebbe e diminuirebbe come il pianeta nelle sue fasi. Infine, Plinio parla della proibizione senatoria d'importare dall'Africa pantere e ricorda come a partire dalla proposta di un tribuno della plebe a nome Gneo Aufidio (forse attorno al 170 a.C., almeno stando a Livio) tali animali fossero importati per i giochi circensi; quindi Pompeo, Ottaviano e Claudio ne avrebbero importate in numero ragguardevole. Che la proibizione senatoria fosse connessa al carattere dionisiaco dell'animale, e quindi alla lotta del ceto patrizio repubblicano contro l'ingresso in Roma di culti e usanze orientali? Certo è che introduzione nell'Urbe del grande felide e utilizzazione politica della figura di Dioniso-Alessandro vanno di pari passo.

Il cristianesimo - erede in ciò quanto meno di una parte della simbolica dionisiaca, com'è accaduto del resto nel caso dell'uva - impresse all'esegesi della pantera un carattere decisamente positivo: i suoi caratteri di seduttrice furono ritrascritti in termini di dolcezza, bellezza, mitezza; la screziatura della sua pelle divenne un ornamento: "da sua pelle è variopinta come la tunica di Giuseppe", dice il Fisiologo). La pantera, amica di tutti gli animali - è nemica soltanto del drago, il quale nella simbologia cristiana ha il valore che sappiamo - quando è sazia si ritira nella tana e dorme per tre giorni; al terzo giorno si risveglia e ruggisce. Dalla sua bocca aperta nel ruggito promana l'aroma di tutte le spezie: e gli animali, attratti dal profumo, le si avvicinano. Il simbolo cristico è evidente: i tre giorni sono quelli del sepolcro, il risveglio la Resurrezione, il ruggito profumato la dolcezza del Verbo, la pelle variopinta la Sapienza spirituale di Dio (come in Ps., 44,10). Francesco Zambon, dotto e intelligente traduttore del Fisiologo, ha notato al riguardo che in questo testo scompare la menzione del profumo come esca per la preda e ha sottolineato un elemento inquietante che emerge attraverso il Contra Celsum di Origene, là dove si ribatte alla tradizione secondo la quale Gesù sarebbe stato figlio di un soldato romano di nome Pantera. I bestiari accettano in genere la voce del Fisiologo, magari sottolineando la distinzione - già pliniana - fra il pardus e la panthera (il primo sarebbe il maschio feroce della seconda). Il leopardo sarebbe appunto il frutto dell'unione spuria di un pardo con una leonessa.

Ma, naturalmente, nella tradizione medievale, altre voci sono recepite. Nel Dit de la panthère d'amors, come nel Bestiaires d'amours di Richard de Fournival, l'alito profumato della pantera - del quale si ricorderanno i poeti provenzali, i dolcestilnovisti e Dante stesso - è associato alla sua funzione di richiamo erotico, e la dolce, aggraziata pantera riassume il suo simbolico valore sensuale. Se ne ricorderà il Carducci, nella cui Faida di Comune i Pisani chiameranno Lucca "Pantera druda", con allusione alla pantera arme araldica della città rivale ma anche con pesante riferimento a quei caratteri che facevano si che, per lo stesso Aristofane, la pantera fosse metafora della cortigiana. La "gaietta pelle" della lonza del I canto dell'Inferno - per quanto la lonza, più che un leopardo, sia probabilmente una lince: la vista acuta della quale sarebbe stata presa da Dante a significare l'invidia, che scruta malevola le fortune altrui - è ricordata dal poeta come un fattore almeno apparente di benevolenza e di positività. Insomma, il triangolo funzionale caccia-inganno-eros resta valido nell'esegesi medievale, ma diventa suscettibile di due interpretazioni: una propriamente allegorico-edificante, sulle tracce del Fisiologo; e una erotico-cortese, che sembra riprendere o addirittura continuare mai del tutto dimenticati moduli greco-romani (rivisitati anzi attraverso l'aetas ovidiana, il XII secolo).

Sul piano araldico, la figura del leopardo-pantera non ha uno statuto ben chiaro. Le sue versioni moderne (come possiamo vederle nell'arme della città di Lucca o della contrada senese della Pantera), che mostrano un grande felide "al naturale", non sono attendibili. Vero è che i famosi leopardi di Enrico Plantageneto, nel XII secolo, sono fra le prime armi araldiche attestate come tali: ma in realtà il leopardo non sembra avere avuto, almeno in origine, un aspetto araldico proprio. Di solito lo si raffigura come un leone, solo che lo si atteggia "passante" anziché "rampante" e col muso di fronte anziché di profilo. Leopardi araldici sono frequenti nelle aree in qualche modo interessate dalla signoria normanno-plantageneta (Inghilterra, Guienna, Normandia), nonché in quelle d'area sveva e bavaro-sassone (Svizzera, Germania meridionale). Il leopardo compare qua e là nella letteratura relativa ai "racconti d'animali", come il Roman de Renard; un sostenuto commercio di ghepardi si aveva tra Oriente e Occidente, dove erano utilizzati per la caccia. Di leopardi o di ghepardi si fa spesso menzione - o delle pelli loro e di altri felidi - nelle fonti commerciali dal XII) secolo in poi.

La Rota della Panthera dal Triompho di Fortuna di Sigismondo Fanti (Modena, 1645).
 

Note

[1] Associazione di fedeli del culto di Dioniso. Danza e cerimonia di tali associazioni.

[2] Alessandro giunse però a lambire con le sue conquiste l'area abitata dal leopardo delle nevi, anche se i contatti fra la Grecia e il mondo egizio e quindi africano potrebbero far pensare anche a un rapporto con i grandi felidi di questo continente (sempre di ghepardi si tratterebbe comunque).

La serie di Franco Cardini dedicata alla tradizione del simbolismo animale e dei bestiari, originariamente pubblicata sulla rivista Abstracta tra il 1986 ed il 1989 col titolo di Mostri, Belve, Animali nell'immaginario medievale, è integralmente ospitata su Airesis nella sezione Il giardino dei Magi. Si compone dei seguenti articoli:

Il sito personale di Franco Cardini: www.francocardini.net

Articolo pubblicato per la prima volta sulla rivista Abstracta n. 23 - febbraio 1988, pp. 50-57, riprodotto per gentile concessione dell'autore che ne detiene i diritti. Riproduzione vietata con qualsiasi mezzo.